Il Messaggero, 3 aprile 2022
Quando il Dalai Lama lasciò il Tibet
Il 31 marzo del 1959 Jetsun Janpen Tenzyn Yatsu, quattordicesimo Dalai Lama, massimo esponente spirituale e quindi politico – del Buddhismo tibetano, raggiunse l’India dopo un viaggio avventuroso, fuggendo dal suo Paese occupato dai comunisti di Mao. Da allora, egli rappresenta per alcuni il governo legittimo del Tibet, per altri un irriducibile utopista e per tutti (tranne i cinesi) un apostolo di tolleranza e di pace.
LA FILOSOFIANon abbiamo qui lo spazio, né l’adeguata preparazione, per riassumere nemmeno a grandi linee la religione, o meglio la filosofia che il Dalai Lama rappresenta. Il Buddhismo, sorto in India, ha avuto maggior successo, proprio come il cristianesimo, fuori del territorio di nascita, dove è stato sostituito da una serie infinita di sette ispirate al Brahamanesimo continuamente riveduto. A sua volta, il Buddhismo tibetano ha elaborato una visone del mondo meno negativa di quella originaria, contrassegnata da un pessimismo cosmico che vede nell’annichilimento della volontà e del desiderio l’unico epilogo auspicabile di un’esistenza ontologicamente punitiva. Se a suo tempo il Siddharta di Herman Hesse ha conquistato la gioventù occidentale, è stato proprio perché ha dato una risposta alle inquietudini di una generazione dal cuore stanco di un mondo vuoto. Il Dalai Lama, al contrario, ancora oggi manda messaggi di fiducioso ottimismo, ed è raro vederlo senza un invitante e rassicurante sorriso.
IL PERICOLOIn realtà la sua è stata un vita difficile. Nato nel 1935 e intronizzato all’età di cinque anni, nel 1950 dovette affrontare il pericolo dell’ingombrante vicino. Dal 1949 la Cina era diventata un paese comunista. Mao Tse Tung (oggi Mao Zedong), di cui ancora campeggia il ritratto sulla piazza principale di Pechino, l’aveva conquistata dopo anni di guerriglia sconfiggendo il filoccidentale Chiang Kai Sheck, rifugiatosi a Formosa – oggi Taiwan – sotto la protezione dell’ombrello americano. Consolidato il potere, Mao aveva intrapreso la consueta politica espansionistica ispirata dalla fede sull’inevitabile sconfitta del capitalismo ad opera di un proletariato rivoluzionario.
Poco importava che questo proletariato, impoverito (secondo la profezia di Marx) da un’accumulazione di ricchezza da parte degli industriali, fosse formato non da operai ma da contadini; né che l’unico esempio di comunismo fosse rappresentato da una nazione, come l’Urss, dove la transizione borghese era mancata e si era passati direttamente dal feudalesimo dello zar al collettivismo di Lenin; né infine che i Paesi limitrofi, che costituivano gli immediati obiettivi di Mao, fossero ancora più economicamente arretrati del suo. Mao provò a estendere il suo dominio ovunque trovasse una resistenza inferiore alle sue forze. In Corea e a Formosa fu fermato dagli americani. In Tibet trovò via libera, perché quel territorio era fuori della portata della flotta statunitense, ed era militarmente indifendibile. Il mondo protestò, e la Cina aggravò la repressione.
I PRECEDENTILa lezione della storia, che non si impara mai abbastanza, è che davanti a un’aggressione conta solo la forza delle armi. Le garanzie internazionali e gli stessi trattati sono – soprattutto nella mente dei sovrani assoluti – carta straccia. Così era stato per il Kaiser che aveva violato nel 1914 la neutralità del Belgio. Così era stato per Hitler che aveva infranto il patto di Monaco. Così per Stalin, che violò gli accordi di Yalta e di Potsdam.
E così è oggi per Putin, che rivendica nei confronti dell’Ucraina, e forse degli altri Paesi vicini, vecchi privilegi zaristi. Se in questi gironi si arriverà a una tregua e magari a un armistizio non sarà né per gli auspici degli uomini di buona volontà, né per gli appelli dei pacifisti. Si arriverà, anche con l’intermediazione dell’Italia, perché Zelensky ha resistito, ed ha inflitto all’invincibile ex Armata Rossa perdite intollerabili.
Il povero Dalai Lama non aveva armi, e nemmeno la voglia di usarle, perché la sua filosofia, ispirata alla non violenza, confidava in altri strumenti. E così è dovuto partire per l’esilio. Oggi il Tibet è una provincia cinese, e lo resterà finché la Cina lo vorrà, cioè per sempre. O meglio, visto che al mondo non c’è nulla di eterno, molto a lungo.
I RICONOSCIMENTIDa allora, questo ambasciatore di fratellanza e di pace gira il mondo riscuotendo dappertutto sorrisi compiaciuti e riconoscimenti ossequiosi. Predica una religione universale, compatibile, almeno dal suo punto di vista, con le altre religioni positive, cosicché anche i devoti cristiani ne possono accettare l’insegnamento. Per gli ebrei e i musulmani questa adesione è minore, forse perché è il cristianesimo ad essersi annacquato in un conciliante universalismo, ma anche per loro il Dalai Lama è una figura venerabile.
Soltanto la Cina continua a diffidare di questo predicatore mansueto, che si sta progressivamente ritirando, anche per ragioni di età, nell’isolamento monacale. Ma la Cina, indifferente a qualsiasi forma confessionale purché non interferisca con i suoi interessi, è perennemente ostile alla presenza di personaggio che ricorda al mondo la prevaricazione subita dal suo popolo inerme. E gli stessi governanti, anche nelle democrazie occidentali, sono riluttanti a riceverlo per paura di offendere la sensibilità di Pechino e di comprometterne le buone e fruttuose relazioni.
IL COMBATTIMENTONon si può non nutrire una calda simpatia per questo saggio predicatore che confida nella bontà dell’uomo, e nelle risorse della parola confermata dall’esempio. Né si può restare stupiti davanti all’entusiasmo che la sua affascinante personalità suscita anche nelle menti più scettiche e disincantate, perché soprattutto nei momenti più bui tendiamo sempre ad auspicare che la Ragione riprenda a parlare e la speranza a rifiorire. E tuttavia questa stessa Ragione ci induce a riflettere che la volontà di pace non deve mai risolversi in un’arrendevole ritirata. Per questo, alle commoventi omelie del Dalai Lama, e alle altre dello stesso genere, preferiamo quelle – consacrate nella Bibbia – che Giuda Maccabeo rivolse ai suoi soldati alla vigilia della battaglia di Emaus: Armatevi, e siate uomini di valore. Siate pronti al combattimento, perché è meglio perire in battaglia che assistere all’oltraggio della nostra Nazione, della nostra fede e dei nostri altari. Per il resto, sia fatta la volontà di Dio.