la Repubblica, 2 aprile 2022
Il pacifismo senza se e senza ma non è la risposta
Ma il concetto di sinistra coincide con l’idea di pace? In realtà la sinistra nella sua storia è stata tante cose e ha cambiato secondo le epoche i suoi ideali di riferimento, attorno ai valori fondamentali di giustizia, solidarietà e uguaglianza che segnano tutta la sua vicenda ultracentenaria, nel progetto di difesa e di emancipazione dei ceti sociali più deboli. C’è dunque la speranza della liberazione dalla schiavitù del bisogno, nei precetti del primo socialismo nell’Ottocento, non c’è la libertà, come fosse un lusso borghese, un diritto post-materialista, che viene dopo la sopravvivenza. La fraternità, cristiana e socialista, porta naturalmente con sé l’orizzonte ampio dell’internazionalismo, mentre il lavoro costruisce la consapevolezza di un insieme che non è più soltanto mestiere e si avvia rapidamente a diventare classe. Il rifiuto della guerra nasce prima della difesa della pace. Non è un rigetto della violenza, praticata, mitizzata e cantata dentro il sogno rivoluzionario, retoricamente e non solo. È piuttosto la coscienza – che si insedia nelle masse – del valore della persona, del legame dell’uomo con gli altri uomini, addirittura la percezione dello spazio sacro del corpo, che comincia a trovare la protezione dei suoi diritti scoperti nelle battaglie per il lavoro, quando si comincia a lottare per la qualità della vita, per il tempo fuori dalla fabbrica, per il riposo e quindi per l’orario: 8x8x8. La «futura umanità» non ha confini, non conosce differenze, cerca ciò che la unisce più di quel che la può dividere. La guerra, poi, nella sensazione diffusa è combattuta dal popolo ma è decisa dai padroni: finché il nazionalismo non arriverà a trasformare anche la guerra in un’ideologia armata per rivendicare sovranità pretese o vendicare torti presunti. La biforcazione della vicenda rivoluzionaria italiana, tra Mussolini e Turati, si compie sul tema della guerra, da cui germoglia non solo l’interventismo ma gran parte della retorica combattentistica del fascismo: che nell’intervallo tra i due grandi conflitti scatenerà la sua organizzazione militare armata in una vera e propria guerra civile quotidiana nelle città e nelle campagne, per la conquista del potere con la violenza. Una guerra contro il bolscevismo, contro le paure della borghesia davanti all’occupazione delle fabbriche, contro la voglia di rivincita dell’Agraria, che finanzia e spinge le camicie nere a distruggere le organizzazioni operaie e a disperdere i loro quadri dirigenti, bandendoli dalle loro città.
Sarà il concetto del progresso a valorizzare l’idea di pace. È la promessa di un domani di crescita e benessere garantito dalle scoperte scientifiche e dalle conquiste mediche, che avvicinano il futuro (si chiama ancora avvenire) a portata di mano. Ma la garanzia indispensabile del futuro è la pace. La fede nel progresso come forza di liberazione e di emancipazione spinge la sinistra a rivendicare e difendere la pace. Anzi, la sua eterna vocazione alla modellistica sociale la impegna via via nella costruzione ideale e materiale delle infrastrutture della convivenza civile, scoprendo strada facendo che sono strumenti della democrazia. Dunque il progresso ha bisogno di pace: ma la garanzia della pace viene dalla democrazia. Per la sinistra il cerchio si chiude, con tutti i suoi punti di riferimento all’interno, la fraternità, la solidarietà, l’umanità, insieme con il progresso, i diritti e la democrazia. In più la teorizzazione della scelta di pace s’incarna nella politica, dove si sviluppano altri elementi di sostegno: l’opposizione all’imperialismo, la negazione della forza come strumento di risoluzione dei contrasti tra i Paesi, il rifiuto della sopraffazione, la difesa del diritto internazionale e del disegno di ordine mondiale che ne discende.
Inizia così lo sforzo ambizioso e ingenuo di inventare – insieme con altre culture politiche – la formula di garanzia generale capace di governare gli istinti guerreschi dell’uomo. Creare istituzioni in grado di creare la pace e tutelarla. Far nascere gli organismi internazionali di intermediazione e di garanzia, le Corti in grado di giudicare, l’Unione Europea per impiantare un’alleanza democratica e pacifica nel cuore del continente che ha generato due guerre universali, le Nazioni Unite come cornice universale di un mondo che cerca di autogovernarsi disciplinando le sue tentazioni. C’è qualcosa di titanico in questa meccanica della convivenza, finalmente intesa (dopo la tragedia dell’Olocausto, e la realizzazione della bomba atomica) come ripudio della guerra, ormai in grado di distruggere il pianeta. Alla tecnologia militare della bomba, risponde la tecnologia civile della democrazia, unico antidoto possibile: la democrazia dei diritti e la democrazia delle istituzioni. Il traguardo è un ordine mondiale condiviso e accettato, con il suo canone di regolazione dei conflitti e le sue regole, nell’esecrazione comune del primitivismo sanguinario della guerra e della sua primordialità perenne. In concreto, mentre creano l’utopia generosa di un’autorità sovranazionale di pace, Stati e governi sottoscrivono e condividono la coscienza di un limite a cui si sottopongono volontariamente, rinunciando a prove di forza capaci di forzare il confine.
Da questa ricerca di una garanzia generale, da questa paura universale del conflitto definitivo, nasce il pacifismo che fa della conquista della pace una bandiera, un’ideologia, un assoluto pre-politico che non ammette trasgressioni e obiezioni. Soprattutto i giovani si riconoscono in questo ideale e si raccolgono dietro lo slogan che li chiama a dire «no a tutte le guerre». Ma proprio perché assoluto, questo rifiuto della guerra non ammette distinzioni, non prevede differenze, non accetta nemmeno un’analisi. C’è una logica, naturalmente: l’enormità della guerra, il suo impatto di annientamento, la sua missione di morte può essere fermata solo con una ripulsa altrettanto totale, preconcetta e definitiva, solo se con la guerra non si viene a patti nel ragionamento, se non si accetta un confronto, soltanto se la guerra non viene compresa e trattata come una variante possibile della vita. Essendo la negazione della vita, va vista invece come un atto contro natura e respinta in blocco, ogni volta e per sempre.
In realtà questa radicalità della risposta alla radicalità violenta della guerra ci esonera dal dovere di una valutazione di merito, e quindi ci esime dalla responsabilità del giudizio. C’è infatti un merito, nel senso di un significato, anche nell’orrore della guerra. Quando abbiamo conferito allo Stato democratico il monopolio della forza, ad esempio, noi abbiamo inserito nel patto l’aspettativa che lo Stato ci difenda da un’aggressione: e che lo faccia usando la forza quando è necessaria e restando democratico anche in una scena di guerra. C’è il conflitto giusto e quello ingiusto, come ci ha insegnato Bobbio. C’è il rispetto o il disprezzo del diritto internazionale, c’è la proporzione tra la difesa e l’offesa e c’è invece l’arbitrio. Ci sono gli aggressori e l’aggredito, come nella crisi ucraina. C’è il rapporto di forze, tra il debole e il potente. Rifiutarsi di analizzare tutti questi elementi, per chiudersi nel generale «no a tutte le guerre», significa rifiutarsi di capire e di giudicare, cioè di prendere parte. Il no a ogni conflitto è naturalmente condivisibile, utile e necessario, purché non diventi uno schermo che impedisce di vedere «questo» conflitto in tutte le sue componenti, nel suo specifico e nel diverso ruolo dei soggetti in campo, le colpe e le responsabilità.
Fermarsi al no è una posizione morale, generosa senz’altro, ma sterile dal punto di vista politico. Perché ci sono precise ragioni se la pace è stata violata e oggi siamo davanti alla guerra, e non analizzarle è venir meno a un dovere. Troppo spesso noi occidentali chiedendo la pace ci siamo salvati l’anima a poco prezzo, abbandonando i corpi altrui in balia di chi ha deciso la guerra, proprio perché non abbiamo capito che bisogna andare oltre lo slancio etico, il rifiuto della barbarie e la compassione. C’è un equivoco della generosità quando pensiamo che proprio per la sua opposizione totale il «no a tutte le guerre» assorba ogni valutazione politica e qualsiasi altra presa di posizione: mentre è una precondizione morale, dalla quale bisogna partire per arrivare a un giudizio e alle conseguenze che comporta. L’unico modo che abbiamo per costruire davvero la pace è rifiutare le ragioni del conflitto, individuando le sue cause e le sue motivazioni, per ricavarne l’obbligo politico di una scelta di campo. È anche l’unica strada per non rimanere semplici spettatori davanti all’ultimo scandalo d’Europa. Magari col rifiuto di aiutare gli aggrediti inviando le armi che ci chiedono: un rifiuto per il loro bene, naturalmente, cioè per non prolungare un’inutile battaglia, come consiglia il cinismo della realpolitik che non riconosce alle vittime impegnate a difendersi nemmeno il diritto di scegliere come sopravvivere e per cosa morire.