il Giornale, 2 aprile 2022
Intervista a Billie August
Settantatré elegantissimi anni, quattro mogli, altrettanti figli, ventuno film, due Palme d’oro a Cannes – caso rarissimo bissare sulla Promenade de la Croisette – un premio Oscar, e un aplomb scandinavo. Dicono che con la macchina da presa abbia la stessa sicurezza con cui, fuori dal set, indossa impeccabili camicie bianche slim fit.
Stile, concisione, luminosità. Che sono in qualche modo le caratteristiche cinematografiche di Bille August, danese, regista e sceneggiatore: «Ma ho cominciato come direttore della fotografia, sarà per questo che quando giro un film cerco sempre la maggiore attenzione formale possibile: una bella espressione visiva vale tanto quanto una buona storia, le due cose si esaltano a vicenda». Che ha cominciato a sognare il cinema grazie all’Italia: «Da bambino, a scuola, erano gli anni Cinquanta, ci portavano ogni tanto a vedere degli orrendi western, ma una volta proiettarono La strada di Federico Fellini. Hai presente quando qualcosa ti cambia la vita? Ecco. Uscii dalla sala sapendo che volevo entrare in quel mondo fatto di immagini, storie, parole». Che di quel mondo poi è diventato un protagonista assoluto: per due volte un suo film è stato il migliore a Cannes: nel 1988 con Pelle alla conquista del mondo, tratto dal romanzo di Martin Andersen Nexø, che vinse anche l’Oscar al miglior film straniero, e nel 1992 per Con le migliori intenzioni, tratto da una sceneggiatura autobiografica di Ingmar Bergman. E che in Italia ritorna, oggi, ospite d’onore della XX edizione del BAFF, il «Busto Arsizio Film Festival», per ricevere il premio «Dino Ceccuzzi Platinum» all’eccellenza cinematografica. Si chiamano maestri.
Una passione per le piccole storie che diventano paradigmi esistenziali (fra i suoi film più famosi, spesso tratti da grandi libri, La casa degli spiriti, Jerusalem, Treno di notte per Lisbona, Era mio nemico...) e una fede nell’arte cinematografica incrollabile a dispetto della pandemia, dello streaming e del successo delle serie tv («La magia che accade nella sala è qualcosa che non sparirà mai: solamente lì dentro, da solo, in silenzio, al buio, puoi credere a certe parole e a certe immagini»), Bille August in realtà dall’Italia, dopo aver visto quella vecchia storia di Gelsomina e Zampanò, non se n’è mai andato. Da tempo ha in progetto un film sulla famiglia Versace, e si era parlato anche di Antonio Banderas nel ruolo dello stilista assassinato a Miami Beach nel 1997 («Un film che continua a essere rimandato di anno in anno, però lo voglio fare...») e ora comincia a lavorare sulla trasposizione di un romanzo di Erri De Luca, uscito nel 1998: Tu, mio. Che diventerà Me, You. Plot: «Su una remota isola italiana, nei primi anni ’60, un adolescente ossessionato dai ricordi della guerra si innamora di una donna più grande che custodisce un oscuro segreto». L’isola è Ischia, e il cast – non confermato – dovrebbe essere composto da Raoul Bova, Claudia Gerini o Jasmine Trinca, e Alessandro Gassmann. «Ho avuto il romanzo dalla produzione. Mi è piaciuta molto l’innocenza e la purezza sotto la storia. Ho anche incontrato Erri De Luca, ma lui non è coinvolto nel progetto: la sceneggiatura l’ho scritta io, con Greg Latter. Tra pochi giorni sarò a Napoli e a Ischia, per scegliere i luoghi e il cast. Poi fra settembre e ottobre, quando se ne andranno i turisti, inizieremo a girare». Strano incontro fra una cultura del nord, che i luoghi comuni vogliono fredda e dai grandi silenzi, e una mediterranea, calda e chiassosa. «In realtà ci saranno entrambi i mondi. Ad esempio il ragazzino, che nel romanzo è un napoletano, nel film ha un padre inglese, e va a Ischia a trovare i genitori. Ognuno parla la propria lingua, e i due mondi, differenti, non possono fare a meno di incontrarsi». Che non significa l’appiattimento di ogni differenza culturale. Anzi. I sentimenti sono universali, i contesti sociali restano in tutte le loro diversità. «Anche nel cinema l’identità nazionale è importantissima, e non deve essere annullata. Sono le enormi differenze fra i popoli che ci rendono parte della stessa umanità. Pensate al grande cinema. I film cinesi quando sono davvero cinesi, diventano internazionali. I film danesi, quando sono davvero danesi, diventano internazionali. Così i film italiani: quando sono davvero italiani, diventano internazionali. Quando invece vogliono imitare Hollywood, perdono qualsiasi interesse, sia culturale che commerciale. Faccio un esempio, che voi italiani conoscete bene: È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino è un grandissimo film che mi ha toccato. Innanzitutto perché è un’opera onesta, molto italiana. È un film che ha una forte identità, e con una firma precisa, quella di Sorrentino. È un film suo, non di una major. Si vede che nessuno ci ha messo mano oltre lui, che è rimasto se stesso, libero, in tutta la sua italianità». E forse persino la sua napoletanità.
Vicino all’Italia, lontano da Hollywood. Bille August ha lavorato molto negli Stati Uniti, oltre che in Europa. «Ma non mi piace lavorare là. A Hollywood non hai mai la parola finale sulla sceneggiatura: ce l’hanno i produttori, sempre gli stessi. Ma così si perdono le firme riconoscibili e si afferma l’omologazione. Hollywood è cambiata molto. Un tempo c’erano i grandi Studios e poi le case di produzione indipendenti. Si facevano i film pop corn ma c’erano anche i film caffelatte. Oggi ci sono soltanto grandi film di cassetta, quelli d’azione, quelli della Marvel, dei supereroi... E alla fine il cinema perde di profondità. Che è la cosa che invece io continuo a cercare».