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 2022  aprile 02 Sabato calendario

Salvatore Veca e le Beatitudini di un filosofo laico

Se l’imprevedibile è il luogo teologico dello Spirito; e se gli ultimi giorni di un intellettuale testimoniano il senso definitivo della ricerca e della sua stessa vita, ecco, meritano uno sguardo attento, ma anche sorpreso questi Pensieri nella penombra. Meditazioni sul mondo e sull’uomo”, che Salvatore Veca ha condiviso con Arnoldo Mosca Mondadori poche settimane prima di morire, lo scorso ottobre. Libricino fuori dagli schemi, realizzato nel tempo della malattia, serate d’amicizia e famigliarità (la mamma di Arnoldo è stata per tanti anni la compagna di Salvatore), un bicchiere di vino, musica sinfonica o jazz di sottofondo. Ed ecco che il dialogo sin dall’inizio prende una piega non proprio scontata e uno dei pensatori più attenti alla teoria della libertà e della giustizia, punto di riferimento della sinistra non marxista, finisce per lasciare a chi legge un estremo riconoscimento: «La mia filosofia è stata come prendere, in modo laico, le Beatitudini». Il Discorso della Montagna come “Carta dell’umano”, il suo “tralucere” nell’amore per l’uomo fa sì che la nozione teoretica della possibilità si sposti nella speranza evangelica e di qui, volteggiando attorno alla vertigine della fede, si esalti nella preghiera.
Oltretutto, lo sfondo è il mondo di oggi, dominato dalla questione dell’ambiente e dagli sviluppi dell’intelligenza artificiale, novità rispetto a cui centrali appaiono a Veca l’approccio e la visione di Papa Francesco. Anche chi non l’ha conosciuto di persona, trova qui un uomo gentile, di solida ed elegante cultura, anche ironico, ma capace di slanciarsi verso l’Amore puro. Maestro amatissimo e a lungo presidente della Fondazione Feltrinelli, dal disincanto rispetto alle utopie, giunge ad accarezzare il Cantico dei Cantici; lo fa in modo appassionato e consequenziale come chi, abituato ad approfondire il tema del linguaggio e della scienza, si misura con il Logos, la figura di Cristo, l’incarnazione, il mistero della Trinità, il dono della Croce.
Tanto vale metterla in modo quasi brutale: non si tratta di una conversione, tantomeno
in limine mortis. Come insegna la storia della cultura in diversi casi – forse Gramsci, certo Malaparte, magari Saragat, di sicuro Guttuso – questo genere di estremi ripensamenti generano comprensibile curiosità, mentre Veca fino all’ultimo si dichiara “non credente”. Allo stesso modo, il fatto che lo scambio sia avvenuto con una persona di ardente fede qual è Mosca Mondadori, non pare determinante. È che leggendo con la consapevolezza che sono i pensieri di chi è prossimo alla fine, l’impressione è quella di un intellettuale che non solo continua a cercare la luce e rimane nelle sue convinzioni, ma proprio da esse è portato più in là, a vedere l’invisibile, l’infinito, ad “acchiappare” l’Anima, lo Spirito, Dio.
In questo senso gli estremi pensieri di Salvatore Veca paiono qualcosa di meno, però anche di più di una conversione. In qualche modo l’estremo pensiero assomiglia a una profezia e tanto più colpisce se letto davanti alle immagini di guerra, specie quando affronta il tema delle diseguaglianze, dell’Europa, dell’“agiata disperazione” del mondo ricco che “va avanti a psicofarmaci”. Al dunque una testimonianza che fa da ponte tra credenti e uomini di buona volontà e li incoraggia a esplorare la vita alla ricerca di “punti di luce” perché solo in questo modo il passato, e di conseguenza il futuro, non ci sembreranno «una fabbrica di rovine su rovine, ma ci apparirà come un luogo luminoso, popolato di luci pulsanti come i presepi di bambini, e ogni lampadina che pulsa dice di una speranza che c’è stata, e siccome c’è stata, ci sarà».
Perché poi alla fine la giustizia sociale si misura con la fragilità dell’uomo e la comunità globale si confonde con la possibilità di una nuova realtà entro cui il senso ultimo sta nello scrutare i volti, ascoltare le sofferenze, sentirsi parte di un unico corpo. E in crescendo, la riflessione filosofica si fa poesia, contempla e richiama esplicitamente “grida di gioia e danze” dinanzi all’“amante folle”, la “follia di Dio che scardina ogni certezza”. Viene da pensare da quanto lontani si era partiti. A un passo dall’estasi, ancora una volta ci si chiede se al fondo dell’esistenza il delirio d’amore non sia, accanto alla filosofia, la strada che porta alla salvezza.