la Repubblica, 2 aprile 2022
Il processo ai Beatles e quei 14 mesi di tortura per Mokta
NEW YORK – «Ci avevano dato nomi da cani e quando chiamavano dovevamo correre, altrimenti, giù botte. Ci torturavano, insultavano, si prendevano gioco di noi. È stato orribile, sempre». È stata la testimonianza dell’italiano Federico Motka, 39 anni, ad aprire il processo al terrorista dell’Isis El Shafee Elsheikh che si tiene ad Alexandria, Virginia. Cittadino britannico di origine sudanese, 33 anni, che secondo l’accusa è uno dei quattro carcerieri jihadisti tristemente celebri per l’efferata crudeltà, conosciuti come “Beatles” in virtù del loro marcato accento inglese. A chiamarli coi nomi dei componenti della celebre band erano stati gli stessi prigionieri per distinguerli giacché erano sempre ben camuffati. Elsheikh sarebbe “jihadi George”, il più spietato. Fra 2012 e 2015 il quartetto ebbe fra le mani 27 ostaggi occidentali. Tra loro quattro americani: i giornalisti James Foley e Steven Sotloff e i cooperanti Peter Kassig e Kayla Mueller. I tre uomini furono decapitati, i video delle loro morti postati in rete. Mueller, violentata ripetutamente, divenne la “schiava sessuale” dal leader dello Stato Islamico, Abu Bakr al-Baghdadi, prima di essere uccisa.
Originario di Trieste, Motka fu rapito nel marzo 2013 nei pressi del campo profughi siriano di Atmeh, dove lavorava come coordinatore della ong francese Acted. Nelle mani dei suoi aguzzini rimase 14 mesi: più a lungo di ogni altro ostaggio. Fu liberato a maggio 2014 grazie alla mediazione dei servizi segreti italiani e al pagamento (mai confermato) di un riscatto di 6 milioni di dollari. Londra non fece altrettanto per il suo compagno di cella, il cooperante inglese David Haines: finì decapitato anche lui. «Una volta mi sorpresero a parlare con un altro ostaggio e mi picchiarono con un cavo di gomma per ore» ha raccontato Motka rievocando le terribili torture subite. «Mi hanno sottoposto a waterboarding, rendendomi impossibile respirare: la cosa peggiore di tutte. Con un taser subii scosse elettriche su piedi e mani. Mi costrinsero in posizioni di stress per ore...». Ossessionati da Guantanamo, gli aguzzini miravano infatti a ripeterne le condizioni. Ciascuno d’altronde, aveva un tormento prediletto: “George” appassionato di boxe. Il tagliatore di teste “John” (quasi certamente Mohammed Emwazi ucciso da un drone a Raqqa nel 2015) preferiva i calci. “Ringo” (Alexenda Kotey, già estradato in America, dichiaratosi colpevole in cambio del carcere a vita anziché di una sentenza di morte) stringeva alla gola come un wrestler. Paul, il più morbido, sarebbe Aine Davis, incarcerato in Turchia. «Mi chiamavano posh wanker perché andavo al college» racconta ancora Motka, suscitando fastidiose risatine nel pubblico. Una definizione in slang britannico traducibile con “masturbatore elegante”: importante, perché rafforza l’identificazione dell’accusato come uno dei “Beatles”. Un’altra volta inscenarono un combattimento fra lui, Foley, Haines e un altro ostaggio britannico, John Cantlie (divenuto poi volto della propaganda dell’Isis prima di sparire nel nulla): «Eravamo così deboli da soll evare a malapena le braccia». L’orrore raccontato da Motka, è purtroppo solo l’inizio. Altri 50 testimoni sfileranno in un processo che durerà almeno 3 settimane.