Corriere della Sera, 2 aprile 2022
La "denominazione di origine inventata" di Alberto Grandi
(Corriere della Sera, 2 aprile 2022)
di STEFANO LORENZETTO
Aggravante generica: il suo unico fratello, Andrea, è stato chef con Romano Tamani all’Ambasciata di Quistello, due stelle Michelin, e al Divina Commedia di New York, dove pranzava il sindaco Rudolph Giuliani. Aggravante specifica: Alberto Grandi è presidente del corso di laurea in Economia e management all’Università di Parma, capitale universale del cibo made in Italy. È proprio qui che Grandi, docente di storia dell’alimentazione, ha violato, e continua a violare, l’ortodossia.
Il Parmigiano? Inventato nel Wisconsin. La pizza Margherita? Non c’entra con la regina Margherita di Savoia. I tortellini bolognesi? Si facevano con carne di pollo. Teorie a dir poco sacrileghe esposte nel saggio Denominazione di origine inventata (Mondadori), dedicato alle «bugie del marketing sui prodotti tipici italiani», che gli è valso un’entusiastica recensione di Piero Angela a «Quark», ma anche le ire dei consorzi di tutela Doc, Docg, Dop, Igp, Igt, Pat, Stg («delle ultime due sigle ho scordato il significato, credo significhino Prodotti agroalimentari tradizionali e Specialità tradizionale garantita»), per nulla entusiasti di questa sarcastica Doi, acronimo a sua volta inventato di cui non avvertivano il bisogno, ora divenuto un podcast di successo in 12 puntate su Apple e Spotify: 170.000 download in meno di due mesi.
Ha sconsacrato persino la carbonara.
«Fino al 1953 non ne parlava nessun ricettario. Gli ingredienti furono portati nel secondo dopoguerra dalle truppe americane. A bacon e uova, la loro colazione, aggiunsero la pasta. Il gastronomo Luigi Carnacina se ne attribuiva la paternità. Il collega Luigi Veronelli gli chiese: “Ma perché le hai dato questo nome?”. La risposta fu: “Non me lo ricordo”».
Lei sostiene che la cucina tricolore ha 50 anni scarsi di vita. Tesi bizzarra.
«L’Italia da un bel po’ non crede più al futuro, così ha inventato un fastoso passato. La verità è che eravamo morti di fame. Mangiavamo poco e male. Poi abbiamo cominciato a mangiare tanto e male. Alla fine ci siamo raccontati di aver sempre mangiato tanto e bene».
Debbo smentirla: la «castradina» che Giorgio Gioco cucinava con l’agnello al 12 Apostoli di Verona veniva dagli schiavi della Serenissima prelevati in Dalmazia.
«Guardi, il tanto celebrato Pellegrino Artusi, che nel 1891 compila La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, raffazzonò ricette. E consigliò di copiare da tedeschi e inglesi, non dai francesi, giudicati troppo raffinati per i nostri palati».
E il «De re coquinaria», mi scusi?
«La cucina romana raccontata nel I secolo da Marco Gavio Apicio non sarebbe riproducibile ai nostri giorni. Pensi solo al garum, la salsa più diffusa a quell’epoca: scarti di pesce fatti marcire nel sale».
Quando finì la fame italica?
«All’inizio del XX secolo, con l’avvento della meccanica e della chimica in agricoltura. Dal 1876 al 1915 ben 20 milioni di italiani vanno a cercarsi il cibo all’estero. Un contadino veneto su tre soffriva di pellagra, cioè carenza da vitamina PP, abbreviazione di “Pellagra preventing”, scoperta negli Stati Uniti solo nel 1937. I medici americani la paragonavano a una peste portata dai nostri connazionali, abituati a consumare 3 chili di polenta pro capite al giorno. Si toglievano la fame, ma si ammalavano. Cesare Lombroso studiò per primo la patologia. Giunse a una conclusione sballata: ritenne che a causarla fosse la cattiva conservazione del mais, non la dieta monotona. È in tal modo che nacquero i granai pubblici. Un bel caso di eterogenesi dei fini».
Apollinare Veronesi, magnate del pollo Aia, mi disse: «Quando ai miei tempi si tirava il collo a una gallina, o c’era un malato in casa o era malata la gallina».
«Infatti nei tortellini l’Artusi mette carne di pollo. Solo nel 1974 la Camera di commercio registrerà la ricetta del “vero tortellino di Bologna” fatto con lombo di maiale, prosciutto e mortadella».
Secondo un altro disciplinare camerale, il mitico ragù alla bolognese prevede il latte. Nessuno se n’è mai lamentato.
«Sì, ma risale al 1982, quando era in auge la panna da cucina. Questo per dire l’artificiosità di certe operazioni».
Mi indichi un piatto di sicuro italiano.
«È dura. Mi hanno crocifisso per aver scritto che le pizzerie nacquero in America, eppure fu là che si cominciò a mangiare la pizza stando seduti. Nel nostro Sud era un cibo di strada. Bravo il napoletano Raffaele Esposito a inventarsi nel 1889 d’aver ideato la Margherita in onore della regina d’Italia, giunta a Capodimonte con Umberto I. Negli Usa era un cibo per disperati, vivamente sconsigliato dai medici, al pari dei maccheroni».
Ma lei attribuisce agli yankee persino il Parmigiano, si rende conto?
«No, io dico che piaceva già a Boccaccio e che Napoleone mandò Gaspard Monge a Parma, affinché indagasse su un formaggio che si conservava bene. Solo che in questa città non c’erano le vacche da latte, per cui fu mandato a Lodi, da dove inviò all’imperatore un rapporto sul “fromage Lodezan dit aussi Parmezan”. C’è un buco di 150 anni, dal 1700 al 1850, nella storia di questo eccelso prodotto. Oggi si fa un gran parlare del parmigiano contraffatto, però fu alla fine del XIX secolo che comparve nel Wisconsin il tanto deprecato Parmesan, in forme di circa 20 chili e con la crosta nera. Chi lo produceva? Qualche casaro italiano emigrato là. Ne cito uno solo: Magnani. Un cognome molto diffuso fra Parma e Mantova. Soltanto nel 1938 spunta il primo consorzio di tutela del Parmigiano reggiano».
E quella degli spaghetti che sarebbero nati in Africa che storia è?
«Oggi la pasta si fa con il frumento Creso, in commercio dal 1974, che ha soppiantato il famoso Senatore Cappelli. C’entra la “battaglia del grano” intrapresa da Benito Mussolini, giacché un terzo della materia prima per il pane dipendeva dalle importazioni, con pesanti ricadute sulla bilancia commerciale. In soccorso del Duce venne il genetista Nazareno Strampelli. Fu lui a inventare il grano duro dedicato al senatore Raffaele Cappelli, che per primo aveva finanziato le sue ricerche. Attraverso pazienti incroci, l’agronomo marchigiano creò una varietà assai produttiva e resistente alle malattie: il grano Ardito. Ma ci arrivò utilizzando una varietà trovata in Tunisia».
Insomma, c’è qualcosa di solo nostro?
«L’aceto balsamico tradizionale di Modena, che nella versione Igp, la meno nobile, è una delle cinque leccornie più esportate insieme con Parmigiano reggiano, Grana padano, Prosecco e Prosciutto di Parma. Peccato che l’originale costi 10.000 euro al litro e richieda almeno 12 anni d’invecchiamento, che possono arrivare a 30. Il rischio d’impresa è enorme: alla fine una giuria decide a chi concedere il bollino. Il succedaneo si fa con mosto, aceto di vino e caramello. Un’operazione commerciale scaltra».
Che l’avrà fatta inorridire.
«Ma no, sono onnivoro, passo indifferentemente dal McDonald’s ai grilli fritti che ho mangiato a Pechino. Oggi solo uno yogurt e una banana. Sono a dieta».
Ricorda un cibo della sua infanzia?
«Sì, ed è tristissimo rievocarlo, nonostante a Mantova fosse il piatto tipico della domenica: ris e tridura, riso bollito nel brodo, con l’aggiunta di uovo sbattuto e parmigiano a fine cottura».
E un sapore perduto per sempre?
«Il fiapòn, un dolce. Si friggevano in una padella unta gli avanzi di polenta e si spolveravano con zucchero a velo».
Ma a chi dovrebbe importare se un cibo è nato davvero in Italia o altrove?
«Certo non a me. Basta che sia buono e non faccia male. Tuttavia detesto la mistica del made in Italy: puro marketing».
Il pomodoro ciliegino mi pare buono.
«Certo. E pensare che i coltivatori di Pachino non lo volevano, preferivano dedicarsi al cuore di bue insalataro. A brevettarlo nel 1989 fu la Hazera genetics di Tel Aviv, alla quale ancor oggi i siciliani pagano le royalty per le sementi».
Pure il lardo di Colonnata è delizioso.
«Chi dice di no? Fantastico. Ma è mai stato in quella frazione delle Alpi Apuane? È così minuscola che faticherebbero a starci due maiali. E infatti conosco allevatori mantovani che forniscono il lardo da stagionare nelle conche di marmo. Trattandosi di un’Igp, indicazione geografica protetta, non è obbligatorio il legame fra territorio e materia prima».
Che cosa insegna ai suoi studenti?
«Come ha mangiato l’uomo prima della scoperta del fuoco. L’idea che si nutrisse di ciò che cacciava è fasulla».
Di che si nutriva, allora?
«Gli ominidi erano divoratori di carogne, al pari degli avvoltoi e delle iene».
E ti pareva! Che schifezza.
«Non me lo sono inventato. Basta leggere Storia dell’alimentazione di Jean-Louis Flandrin, un tomo di 750 pagine curato dal medievista Massimo Montanari, studioso supremo della materia. È stato mio professore e in seguito abbiamo insegnato insieme per due anni. L’uomo cacciatore l’ha creato l’antropologia per riabilitare i nostri antenati».
Non crede che la Denominazione di origine inventata danneggi una delle poche industrie nazionali ancora floride?
«È quello che mi rimproverò il mio concittadino Gianni Fava quand’era assessore all’Agricoltura della Regione Lombardia: “Se tu togli a un piatto la storia, lo privi di un ingrediente”. Aveva ragione. Mi ha messo in crisi. Sono stato invitato a parlare della tavola tricolore ad Ankara. Prima della partenza, mi hanno detto: “Stia attento a come parla...”».
Viviamo in una civiltà gastrica.
«Eccome. Sul food si gioca una partita sproporzionata, quasi che l’italianità passasse dalla difesa dell’amatriciana».
Torneremo a patire la fame?
«Non credo a una carestia in Italia. Il grano russo e ucraino che sfama l’Africa lo daranno a noi. Lo paghiamo di più».