La Lettura, 2 aprile 2022
Il mondo di Dario Argento
Il Blue Bar di piazza C. L. N. a Torino non esiste. Ce lo ha messo Dario Argento, ispirato dalla visione di un catalogo di quadri di Edward Hopper, colpito dal «senso di solitudine, di abbandono, di presenze come fantasmi» del quadro Nightwaks. E lo ha ideato, per Profondo rosso, il suo scenografo Giuseppe Bassan, uno dei fidati partner in crime. Ma quel bar è un luogo reale, meta irrinunciabile dei pellegrinaggi dei fan del maestro dell’horror, uno dei capisaldi della topografia di un regista che da L’uccello dalle piume di cristallo fino a Occhiali neri s’è dedicato a re-inventare la realtà fisica per vincere la sua personale battaglia alla realtà immaginaria. Tutte le strade, nell’universo del romanissimo Argento, portano a Torino.
Qui apre il 6 aprile al Museo del cinema alla Mole Antonelliana la mostra Dario Argento. The Exhibit, a cura di Domenico De Gaetano e Marcello Garofalo. L’intento, spiegano i curatori, è dare a Dario quel che è di Dario. Ovvero un posto definitivo tra i grandi autori del cinema italiano. «Troppo spesso ci si è soffermati soltanto sulla maestria di Argento nel declinare – tra invenzioni visive e virtuosismi tecnici – i generi cinematografici in cui ha scelto di muoversi». Horror, thriller, giallo. «Ma quasi mai ci si è soffermati sui valori altri di cui il suo immaginario è composto, competenze che rimandano non solo al cinema stesso, ma all’architettura, alla pittura, alla musica».
Operazione ambiziosa, quella di Torino: mettere in mostra non solo la filmografia ma l’intera cosmogonia di Argento. Dare spazio a photogallery, sequenze, montaggi, frammenti sonori e di effetti speciali; ma anche quadri, fumetti, opere letterarie, oggetti di design. E, certo, una suntuosa collezione di memorabilia: oggetti di scena, manifesti e locandine originali del Museo nazionale del Cinema, bozzetti scenografici, creature meccaniche, abiti di scena, rimandi alle sue ossessioni: i colori, gli occhi. La mostra è accompagnata da un catalogo ricco di contributi critici (compresa una lunga intervista) e testimonianze dei suoi collaboratori storici.
C’è Sergio Stivaletti, il mago degli effetti speciali da Phenomena in poi, arrivato nel gruppo grazie a Maurizio Garrone (arredatore di fiducia nonché «animalaro» di Argento, la persona capace di procurare gli animali di scena), che racconta del bluff con cui entrò a Cinecittà, millantando la capacità di realizzare «cadaveri» e poi la conquista della fiducia del regista con il primo bozzetto del mostro protagonista del film: «Mi ero ispirato a una foto inquietante scoperta su un libro di genetica appena studiato per un esame all’università».
C’è Luigi Cozzi, vero complice da mezzo secolo, il quale – dopo un incontro in cui «non facemmo altro che parlare di mummie e di vampiri, di film espressionisti tedeschi e di “classici” della Hammer» – aprì con il regista nel 1989 la prima bottega degli orrori italiana, il Profondo Rosso Store di Roma: lì, nei sotterranei, c’era il Museo degli Orrori di Dario.
E, ancora, il fotografo di scena Franco Bellomo, colpito dalla sua ossessione per i dettagli. O Claudio Simonetti, uno dei Goblin. «Inizialmente dovevamo solo eseguire a modo nostro le musiche di Giorgio Gaslini, che stava già registrando con l’orchestra i suoi temi, ma a un certo punto Gaslini abbandonò il film e Dario ci chiese di scrivere tutti i temi più importanti che mancavano. Eravamo giovani e inesperti, ma ci mettemmo a comporre la musica scrivendo il brano Profondo rosso e gli altri brani più importanti del film. Il resto è storia. Più di quattro milioni di copie vendute: neanche nei nostri sogni più ambiziosi avremmo pensato di arrivare a tanto e neanche immaginare che dopo 45 anni ancora si parlasse e si ascoltasse la nostra musica». E poi Pupi Oggiano, Gabriele Farina, Carlo Rambaldi, i ricordi dei suoi attori.
«Il progetto – racconta a “la Lettura” Marcello Garofalo – è nato cinque anni fa con la Fondazione Solares di Parma. Alla base la volontà di indagare il mondo di Argento, la sua riflessione estetica sulle forme del vedere e del far vedere. È un autore e regista che oltrepassa i generi per cui è riconosciuto. Ha applicato al suo cinema teorie che per l’epoca erano rivoluzionarie. Penso che lui abbia rinnovato il suo genere così come Sergio Leone rivoluzionò il western. Postmoderni senza preavviso. Basti pensare come entrambi abbiano usato la colonna sonora nei loro film. Uno sguardo che inganna e che rivela. E costruisce. Vogliamo mettere in luce un aspetto fondamentale della sua opera, la componente delle città immaginarie: topografo, urbanista, può girare un campo a Torino e il controcampo a Roma. Il suo cinema è finzione pura, traveste le località, le reinventa. E le rende vive». Un cinema, come lo definisce l’autore stesso, «idealista». «Dove la grigia realtà mai è entrata e mai entrerà».
Un cinema, rilancia De Gaetano, direttore del Museo del cinema di Torino, che parte «da un approccio che per molti versi pervade tutto il cinema d’autore degli anni Ottanta e Novanta: da Peter Greenaway a John Carpenter, da David Cronenberg a David Lynch, personalità eterogenee, eppure accomunate da un’identica volontà di dare concretezza alle proprie visioni, alle proprie ossessioni più che alle storie da raccontare. Dunque un cinema di “immagine” e “formalista”, che si oppone a un cinema generato dalla parola, dal racconto, dal verbo». Capace di parlare, in tutto il mondo, a pubblici diversi – cinefili e non, giovanissimi e non, appassionati di videogiochi e non.
«Dario è come una rockstar, è venerato dai fan. E anche da molti suoi colleghi, Guillermo Del Toro, Refn, Tarantino». Marta Donzelli, presidente del Centro sperimentale che ha collaborato fattivamente alla mostra – il ciclo di proiezioni si apre con Suspiria, con la copia restaurata a cura della Cineteca nazionale – fa notare come, suo malgrado, sia diventato un caposcuola. «Magari senza eredi ma con decine di allievi – registi, certo; ma anche scenografi, costumisti, direttori della fotografia, montatori, truccatori, musicisti – che attraverso i suoi film hanno scopeto le infinite possibilità espressive del proprio mestiere».
Ci sarà anche Argento a Torino. Sempre un po’ incredulo dell’idolatria di cui è oggetto. «In Giappone hanno realizzato una moneta da 1.000 yen con la mia faccia e poi me l’hanno spedita! Bizzarro, no?», racconta nell’intervista ai curatori. Loro una spiegazione ce l’hanno. «Tutti i protagonisti del cinema di Argento hanno in comune il fatto di assomigliarci, perché possiedono, prima ancora di una psicologia e di un comportamento, la tendenza a vedere sempre troppo o troppo poco, a essere vittime di abbagli e di visioni, fino a non distinguere più ciò che è vero da ciò che è falso. In tutta la sua opera il sogno diviene spazio, quasi come una rete invisibile e l’“onirico” si insinua nella realtà: non in contrapposizione, ma terribilmente somigliante a essa».