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 2022  aprile 01 Venerdì calendario

Emmanuel Carrère: addio a Putingrad

PARIGI. Quando è partito per Mosca, a metà febbraio, Emmanuel Carrère ha messo in valigia Stalingrado di Vasilij Grossman. Avrebbe dovuto parlarne al ritorno con il suo editore italiano, Adelphi, in vista della nuova edizione. "Mi ero incuriosito, non sapevo che Grossman avesse fatto una sorta di prequel di Vita e destino". Il romanzo sull’epica battaglia contro il nazismo, con l’Armata rossa che attraversa l’Ucraina, era una lettura da viaggio. C’è stato solo il tempo di sfogliare qualche pagina. Non appena ha messo piede nella capitale russa, Carrère è precipitato in una nuova "Grande Guerra Patriottica" (come i russi chiamano la Seconda guerra mondiale) e le pagine dello scrittore sovietico hanno preso un’altra dimensione. Quasi mai i libri sono una presenza innocente. Carrère si è trovato a raccontare la vertigine di un conflitto che nessuno aveva previsto, neanche lui che ha sangue russo e un’insana attrazione per un Paese di cui vede la "smisuratezza" in tutto.


"Non posso dire che a Mosca mi senta a casa, ma non è neanche un altrove" ci racconta lo scrittore francese, tornato a Parigi subito dopo aver mandato alle redazioni il suo reportage (uscito su Repubblica il 13 marzo, e ancora disponibile sul sito, ndr). "Sono fottuto, ormai le autorità non mi daranno più il visto d’ingresso". Si schermisce: "Parlo un russo maccheronico, non sono un esperto". Ma sua madre, la storica Hélène Carrère d’Encausse, è la sovietologa che aveva previsto il crollo dell’Urss.  Alla fine di Un romanzo russo, Carrère ha ricordato la sensazione di orgoglio di quando, bambino, imparava a nuotare seguito dallo sguardo materno. Una dichiarazione d’amore, dopo aver tradito nel libro un segreto di famiglia: il nonno, immigrato georgiano, ammiratore di Mussolini e Hitler, scomparso nel 1944, probabilmente ucciso per aver collaborato con i tedeschi. "Un fantasma che ossessiona le nostre vite" scriveva nell’epistola alla madre, tentando di liberarsi finalmente di quella "tara". Ancora oggi per lui la Russia è una faglia aperta.


È riuscito a finire Stalingrado?
"Tornato a Parigi, per tre giorni ho avuto quaranta di febbre. Una grossa influenza, niente di grave, mi sembrava di spurgare tutto quello che avevo assorbito a Mosca. È in questo stato un po’ alterato che ho ripreso la lettura di Grossman.  A piccole dosi, ogni volta che riemergevo dal torpore. Ed è accaduta una cosa strana. Mi sono ritrovato dentro Stalingrado. Il libro aveva una potenza quasi allucinatoria".


Grossman parla al nostro presente?
"Si discuteva di nuove guerre chirurgiche, ibride, tecnologiche. In Ucraina vediamo un conflitto classico, all’antica, con tecniche di assedio alle città, esattamente come successe tra russi e tedeschi a Stalingrado ottant’anni fa".


Vladimir Putin usa molto la retorica della "Grande Guerra patriottica" . Parla di "denazificare" l’Ucraina.
"La Guerra patriottica è sacra in Russia. C’è un’eco particolare quando si usano parole come nazismo, genocidio. Non so però fino a che punto funzioni".


Crede che l’orgoglio nazionalista appartenga ancora al Dna culturale russo o è un vecchio cliché?
"Ci sono sicuramente molti russi che aderiscono a questa retorica. Purtroppo credo la maggioranza. Altra cosa è capire se hanno voglia di arruolarsi e combattere una nuova ’Guerra patriottica’. Francamente non ne sarei così sicuro".


Eduard Limonov, lo scrittore e avventuriero russo a cui lei ha dedicato una celebre biografia romanzata, è morto due anni fa. Se fosse vivo, come si sarebbe schierato?
"Era già stato a combattere nel Donbass, a Sebastopoli, in Transnistria. Se c’era da difendere russi maltrattati, o che lui pensava tali, o territori sottratti alla Grande Russia, era sempre il primo a partire. Quindi non c’è alcun dubbio: Limonov oggi sarebbe al fronte, da qualche parte nel sud dell’Ucraina".


Fa parte dell’ambiguità del personaggio?
"Complicato farne una sintesi politica. È stato un oppositore di Putin, anche coraggioso. E al tempo stesso, quando scavavi, era evidente che ne condivideva le idee. Rimproverava a Putin di essere troppo molle. Oggi non lo direbbe più".


Molti non credevano il presidente russo capace di scatenare questa offensiva. E lei?
"In un reportage pubblicato qualche anno fa, avevo descritto un Paese in cerca di un nemico, che si prepara alla guerra, convinto di essere circondato solo da avversari. Non so perché l’ho scritto. Era una fugace sensazione, non correlata da fatti. Tra i miei amici a Mosca non c’era alcun desiderio bellico, anche perché sono esponenti di una classe media urbana".


I suoi amici sono andati via?
"Alcuni sono partiti, altri stanno pensando di farlo. Tutti sono convinti che sia successo qualcosa di irreversibile. Si è improvvisamente richiusa la parentesi di quasi normalità cominciata con la fine dell’Urss e durata circa trent’anni. Nella migliore delle ipotesi il mondo non precipiterà in una guerra nucleare. Ma i russi che non aspirano a una vita sovietica sono spacciati".


Lei da che parte sta?
"Qualcuno mi ha accusato di fare racconti lacrimevoli sui russi. Io ho tentato solo di mostrare che ci sono anche persone che non vogliono questa guerra, e la subiscono".


Il presidente russo è popolare come prima?
"Non sono capace di misurare l’adesione dei russi ai discorsi di Putin. Lui presenta la guerra come difensiva. E molti ci credono. Come pure credono all’idea ’Ora che facciamo paura finalmente gli altri ci rispettano’".


Un sentimento di rivalsa contro l’Occidente.
"Qualcosa del genere. C’è un uomo solo al comando, che spaventa tutti. Non capita spesso che l’umanità intera stia con il fiato sospeso per capire le prossime mosse di un uomo solo e poco aperto al mondo. Putin si vanta di usare poco internet, di leggere solo le note dei suoi consiglieri: immagino dicano quello che lui ha voglia di sentirsi dire. Deve essere straordinariamente poco informato. E al tempo stesso è straordinariamente protetto. Non sarà facile sbarazzarsi di lui".




Quale autore russo ha raccontato meglio il ventennio di Putin?
"Onestamente non ne conosco. Vladimir Sorokin m’interessa poco, e ho l’impressione che oggi in Russia nessuno legga più nulla. C’è stata un’epoca, quando è cominciata la Perestroika, in cui ogni settimana venivano pubblicati libri un tempo introvabili, si scoprivano autori prima banditi. E c’era un appetito folle per una letteratura ritrovata, in una sorta di perpetua meraviglia".


Scrittori russi contemporanei che le piacciono?
"Mi è piaciuto molto Underground di Vladimir Makanin, che narra la Russia degli anni Novanta. Manca anche qualcuno che abbia raccontato il prodigioso momento della fine dell’Urss. O forse mi sbaglio, c’è Svetlana Aleksievic. Ecco, lei forse è l’unica".


Quando ha scoperto Grossman?
"Lessi Vita e Destino una quindicina di anni fa e come tutti ne rimasi impressionato. Poi ho letto il suo romanzo breve su un uomo che torna dal gulag: molto bello anche se più modesto nell’ambizione e nella stesura. Stalingrado non lo conoscevo fino a quando non me ha parlato Adelphi. Ho usato l’edizione francese che ha ancora il titolo Pour une juste cause. Ingenuamente pensavo fosse solo una prima stesura scritta a caldo, rispetto a Vita e destino. Ho scoperto invece che è un insieme perfettamente coerente. Ci sono gli stessi personaggi, la stessa famiglia. C’è la lettera della madre di Strum che passa di mano in mano e finalmente si svela nel secondo volume. Tra l’altro c’è una magnifica suspense. Solo l’approccio politico è davvero diverso".


In che modo?
"Stalingrado è un romanzo più legato all’ortodossia comunista, manca la potenza dell’accostamento tra nazismo e stalinismo. La vita stessa di Grossman è enigmatica. Mi domando come abbia fatto ad avere una carriera letteraria senza essersi mai iscritto al partito comunista. Non ho la risposta".


Ha letto anche le sue corrispondenze di guerra?
"Sì, e pensavo che due dei più grandi autori sovietici sono stati giornalisti al fronte. Babel’, entrato nell’Armata rossa durante il conflitto russo-polacco. E poi Grossman nella Seconda guerra mondiale. I suoi articoli sono ricchi di testimonianze, riflessioni, ha una straordinaria capacità di abbozzare ritratti in presa diretta, incarnati. Come all’inizio di Stalingrado, quando descrive Mussolini e Hitler".


È davvero il Tolstoj del Novecento?
"L’ispirazione è rivendicata, Grossman ha spiegato che Guerra e pace era l’unico libro che portava con sé al fronte. Stalingrado è abitato da Tolstoj e ha qualità letterarie e psicologiche molto vicine. Vedo anche una presenza della natura e dei paesaggi unica nella letteratura russa. Detto questo, non sono sicuro che Grossman sia uno scrittore immenso quanto Tolstoj, ma li accomuna la stessa ambizione".


Raccontare la guerra.
"Mi viene in mente un film del regista russo Aleksej German, molto meno famoso di Tarkovskij o Mikhalkov. Il suo Venti giorni senza guerra è uno dei migliori racconti che abbia mai visto. Il protagonista, un giornalista chiaramente ispirato da Grossman, ha venti giorni di permesso per tornarsene a casa. Ci sono poche scene di battaglia eppure riesce a comunicare fisicamente il sudicio e il pantano di chi sta al fronte".


E invece il suo prossimo reportage? Da dove?
"In Russia penso di essermi bruciato, e non mi vedo a scrivere sotto le bombe in Ucraina. Non sono abbastanza coraggioso, e poi ci sono già ottimi inviati di guerra. A un certo punto ho pensato alla Moldavia, alla Georgia o all’Armenia, magari per incontrare i russi costretti a emigrare, a rifarsi una vita. Si parla poco di loro, e forse è ingiusto. Non è la loro guerra".