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 2022  aprile 01 Venerdì calendario

Intervista a Franco Locatelli

Margherita De BacLocatelli: le mie difficoltà (e una gioia) alla guida del Cts

P rofessor Franco Locatelli, dopo oltre due anni finisce la sua avventura come coordinatore del Comitato tecnico-scientifico. Più gioie o più dolori?
«Comincio da una gioia: quella che ho provato rendendomi conto della grande solidarietà che ha unito la nazione nella primavera del 2020. Peccato poi che se ne sia perso in parte lo spirito dal 27 dicembre dello stesso anno con l’avvio delle vaccinazioni, malgrado l’evidenza inconfutabile maturata negli ultimi mesi delle tante morti risparmiate».
E i dolori, i momenti duri?
«Tanti. Ne scelgo tre, come indelebilmente impressi nella mia mente per la drammaticità. Le immagini dei camion militari che lasciano il cimitero di Bergamo, la mia città, per trasportare bare di defunti che non potevano trovare sepoltura. Il Santo Padre da solo in piazza San Pietro che prega il 27 marzo 2020 sotto la pioggia, circondato da un vuoto irreale e quasi spettrale. Terza immagine: il presidente della Repubblica che sale la scalinata dell’Altare della Patria da solo per celebrare il 25 aprile del 2020».
Che cosa è stato lacerante per lei?
«L’aver dovuto indicare di sospendere le cerimonie funebri in presenza. Con quella scelta abbiamo senz’altro risparmiato vite, ma abbiamo tolto affettivamente molto al momento supremo dell’ultimo saluto ai propri cari».
La notte è sempre riuscito a dormire?
«Prendere sonno certe volte non è stata una cosa semplice».
Momenti di sconforto?
«Non proprio sconforto, dolore sì, tanto. Specie all’inizio della pandemia quando sembrava di essere finiti in un tunnel senza uscita».
Professore, come fa un oncoematologo pediatra a parlare di altri aspetti della medicina con tanta cognizione di causa?
«Il mondo dell’oncoematologia non è completamente nuovo alle infezioni virali. Inoltre ho studiato molto e mi sono concentrato al massimo, sottraendo tempo alla mia vita privata. Ci metta in più qualche alzataccia, qualche nottata passata a lavorare, e capirà come ho fatto a costruire competenza».
Come ha vissuto interiormente questi anni?
«Con la consapevolezza, progressivamente maturata, che stavamo affrontando l’emergenza più impegnativa e critica del Dopoguerra e che i nostri pareri avrebbero avuto un impatto sulla vita anche economica e sociale del Paese. Per tutti i miei colleghi del Cts, in particolare per chi ha avuto il privilegio di coordinarne le attività, il peso delle responsabilità non è stato semplice da sopportare, non lo nascondo».
Le dispiace chiudere questa esperienza?
«La fine dello stato d’emergenza va vissuta come una notizia positiva. La nostra attività era legata a questa situazione. In questi due anni i colleghi che si sono alternati nei due differenti comitati hanno offerto il meglio delle loro capacità. Si è sviluppato un rapporto di dialogo e collaborazione tra scienza e politica mai esistito prima in forma così strutturata. Penso debba restare un patrimonio del Paese».
Cosa le mancherà?
«Il confronto, sempre un arricchimento, specie se caratterizzato da posizioni diverse».
In che modo ne esce arricchito?
«Da questo confronto continuo con colleghi di valore ho tratto insegnamenti personali e l’evidenza, mai più da dimenticare, che dedicare risorse alla salute vuol dire investire nel futuro di un Paese. Per il futuro noi come classe medica non dovremo mai restare in silenzio se si dovessero ripresentare situazioni di riduzione delle risorse dedicate a quel patrimonio inestimabile che è il servizio sanitario pubblico».
Quale errore non andrà ripetuto?
«È necessario per il futuro che l’Italia si attrezzi al meglio per quella che possiamo definire la preparedness imprescindibile per affrontare compiutamente eventuali situazioni come questa, purtroppo da non escludere, legate a altre malattie trasmissibili».
A che punto siamo dell’epidemia, che scenario si prospetta?
«La circolazione virale è ancora rilevante ed è questa la ragione per cui tutti noi continuiamo a raccomandare prudenza e attenzione nei comportamenti individuali. Tuttavia l’elevato numero dei soggetti contagiati non trova riscontro fortunatamente nel corrispettivo dei ricoveri, soprattutto nei reparti di terapia intensiva, e nei decessi. È merito dei vaccini che abbiamo a disposizione».
La quarta dose può attendere?
«È prioritario incrementare il numero delle persone che devono ricevere la prima dose booster, di richiamo, per ottenere una compiuta protezione vaccinale».
Però?
«Nei maggiori Paesi europei, così come negli Stati Uniti, si è aperta una riflessione relativa all’opportunità di somministrare un’ulteriore dose di richiamo a persone fragili per ragioni anagrafiche. C’è differenza di vedute sul limite di età da cui partire: 70 anni in Germania, 75 in Gran Bretagna, 80 in Francia e Finlandia. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha giustamente richiamato tre giorni fa i colleghi a condividere scelte omogenee in modo tale che l’Unione europea assuma una posizione coerente e comprensibile ai cittadini del nostro Continente».
Lei che ne pensa?
«Con i vaccini oggi a disposizione, la somministrazione di un’eventuale seconda dose booster, che ha dimostrato di possedere un profilo di sicurezza simile a quello della terza dose, permetterà di incrementare la protezione conferita dalle cellule della memoria immunologica, ripristinando i valori che si osservavano nelle settimane successive al primo booster».
Nel frattempo però il virus è cambiato e servono vaccini aggiornati alla variante Omicron, l’ultima arrivata. Non conviene aspettarli?
«È un secondo passo. In autunno si potrà eventualmente considerare di offrire vaccini adattati alla variante oggi predominante senza che questo debba ingenerare stanchezza vaccinale o sfiducia nell’effetto di protezione dalla malattia grave, o addirittura fatale, conferita dai vaccini».