Avvenire, 1 aprile 2022
Quei calciatori soldato alla guerra delle Malvinas
Buenos Aires
Il 2 aprile del 1982 va in scena l’ultimo atto della dittatura argentina: occupare e rivendicare le Isole Malvinas, sotto dominio britannico da 150 anni. Migliaia di soldati di leva impreparati e male armati sono spazzati via dall’esercito di Margareth Thatcher, torturati dai propri ufficiali, emarginati una volta a casa. «Molti di noi sono nati nel 1962. Come quei ragazzi». I campioni del mondo del 1986 lo dicono spesso, quando ricordano l’Argentina- Inghilterra dell’Azteca. I coetanei di cui parlano sono quelli della “Generazione ’62”, spediti alle Malvinas quarant’anni fa, dopo aver terminato il servizio di leva. Male armati, congelati dentro pozzi scavati nella torba e perennemente allagati, l’incubo del «piede da trincea» in gangrena, dentro gli anfibi. Fame, sete, contrabbando di viveri come nel visionario romanzo Los Pichiciegos di Rodolfo Fogwill (“Scene da una guerra sotterranea”). Estaqueados, se presi a rubare cibo o bestiame: lasciati alle intemperie con braccia e piedi legati e divaricati, la tortura preferita da ufficiali che diventano ben presto il primo vero nemico da temere. Scrivere a casa che tutto va bene, ricevere pacchi già aperti dove qualcuno s’è rubato sigarette e cioccolata, avere il coraggio di spararsi a un piede per lasciare l’inferno, o avere il coraggio di rimanerci, aspettando un nemico che non arriva. Dei 23mila soldati argentini mobilizzati, 649 muoiono sul campo e altrettanti si suicidano una volta a casa. Gli avevano detto che gli inglesi non avrebbero mai navigato gli 8000 km di oceano che separano la Gran Bretagna da quell’arcipelago usurpato 150 anni prima, che ancora chiamano Falkland Islands. Malvina e Soledad: due isole quasi simmetriche grandi quanto mezza Sicilia, una sagoma entrata nella simbologia argentina come lo chignon di Evita, le mani di Perón, il sorriso di Gardel o la pelusa di Diego. «Se vogliono venire, che vengano» aveva grugnito dal balcone della Casa Rosada Leopoldo Galtieri, ricordato come il borracho, l’ubriaco, convinto che Ronald Reagan avrebbe tenuto tranquilla Maggie Thatcher (su questa trama si veda la squisita lezione del Prof. Barbero). Due giorni dopo la repressio- ne della grande marcia sindacale del 30 marzo, la piazza è di nuovo piena, ma in festa. Una causa evidentemente unanime, se tutti -dagli intellettuali dissidenti ai Montoneros esiliati- sposano la crociata anticolonialista e antimperialista, per dirla come lo Zio Alfredo di Paolo Sorrentino (Renato Carpentieri) davanti alla Mano de Dios. Ecco, in quella Selección dell’86 c’è gente nata nel 1962 come Burruchaga, Ruggeri, Batista, Clauseman, Enrique o Tapia, che con i futuri soldati ci avevano giocato assieme. Javier Dolard, per esempio, è una seconda punta svelta e leggera quando Cesar Menotti lo pesca dalla nazionale giovanile e lo affianca al già maturo Ramon Diaz, lungo la strada per il Mundial ’82. Javier s’illumina, ricordando gli allenamenti del Flaco: «Battevo i corner e Daniel Passarella alzava la mano da lontano, perché voleva il pallone a centro area. Per saltare faceva tre passi, come nel basket». Un tatuaggio delle Malvinas gli occupa mezza schiena. Ci mostra una foto di 11 ragazzini in divisa gialloblù, le giovanili del Boca Juniors. In piedi, svetta il cabezón di Oscar Ruggeri, futuro pupillo di Carlos Bilardo. Javier, magrolino, capello moro a caschetto, nella foto successiva imbraccia un fucile FAL 7,62. Nato il 24 maggio, compie 20 anni sotto le bombe inglesi, a 20 giorni dalla fine del conflitto. «Gli inglesi cominciano a bombardare il 1° maggio e sbarcano il 21. La guerra vera è durata pochi giorni. Durante la ritirata c’era solo da correre e sperare che le bombe non ti centrassero. Sentivi il fischio e ti buttavi a terra. Chi non saltava in aria si rialzava e correva di nuovo. Arrivato a Puerto Argentino mi accorgo di avere delle schegge nella carne e mi spargo il sangue per tutta la faccia, per restare tra i feriti e non tornare in prima linea». Centravanti della Riserva del River Plate stellare di inizio anni ’80, Gustavo De Luca è uno dei pochi “calciatori-soldato” tornato al fútbol professionale, goleador della serie A cilena nel 1988, una Supercoppa col Colo-Colo nel 1992 insieme a Claudio Borghi. Ci ha messo 17 anni per rincontrare i suoi compagni di reparto. «Quando gli inglesi hanno visto chi eravamo, e come vivevamo, non potevano crederci. Ci guardavano con compassione e stupore. Erano soldati di professione, loro».
«L’unica notte che non ho patito il freddo e che mi sono svegliato sudato è stata quando ho sognato che ero in porta. Piovevano palloni da tutte le parti e non potevo pararli». Hector Rebasti era portiere nelle giovanili del San Lorenzo. Oggi pesa 150 kg e quando gioca a pallone si ostina a stare centrocampo, davanti alla difesa, perché in porta non ci torna neanche se lo pagano, dice. «Dopo la guerra è cominciata la demalvinizzazione. Eravamo una vergogna da nascondere. Cercavi lavoro e dovevi mentire, perché il reduce era un loco». Dei primi mesi a casa ricorda poco. Whisky, sigarette, apatia, l’abbandono definitivo del pallone. Si gonfia, gli occhi si crepano e la gola gli si chiude. «La guerra si combatte per la terra, la bandiera e il compagno che hai di fianco, quello con cui muori di fame in trincea. Oggi voi avete una guerra in casa, e mandando altre armi fate solo peggio. La guerra ti rende un essere miserabile».
Nel San Lorenzo, il Gordo Rebasti giocava con Hector Cuceli, trequartista, famiglia originaria di Crosia, Cosenza. Vive con i suoi 4 cani nel Bajo Flores, non lontano dal nuovo stadio del Ciclón. La voce pastosa, da fumatore, lo sguardo che punta lontano, quando parla, oltre la tv accesa sulla Champions. In sala, la stampa di una famosa foto dell’agenzia AFP con i soldati argentini in marcia, appena sbarcati. Hector è tra i primi a sinistra, sguardo basso, elmetto storto e orologio al polso. «Avevo 6 granate e le ho tirate tutte verso una mitragliatrice che ci stava falciando, nella battaglia di Monte Longdon. Non lo so se ho ucciso qualcuno, potevi solo sparare. Ammazzare o essere ammazzato. Una volta ho anche provato a buttarmi dal tetto di una baracca, per rompermi una gamba e farmi mandare a casa. Niente da fare. Ma son tornato lo stesso. I pazzi della guerra non sono pazzi, hanno delle cose dentro e non sanno tirarle fuori».