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 2022  aprile 01 Venerdì calendario

Quando l’Unione degli scrittori sovietici del 1934 stabilì che gli artisti erano liberi di obbedire

Nel settembre e ottobre del 1922 apparvero sulla Pravda due capitoli di Letteratura e rivoluzione di Lev Trotsky, in cui Anna Achmatova, la Cvetaeva e altre poetesse venivano accomunate in una funesta disapprovazione: «Il circolo lirico dell’Achmatova e della Cvetaeva è molto ristretto. Dio è uno dei pochi invitati... Non si capisce come trovi il tempo per dirigere i destini dell’universo, dato che è solo, non più giovane, e oberato da tutti questi fastidiosi impegni di carattere privato». Elaine Feinstein, Anna di tutte le Russie.
Nella versione dell’Unione degli scrittori, nel 1934, realismo socialista significava che la letteratura sovietica doveva dipingere la vita sovietica non com’era in realtà ma come sarebbe diventata: «Realismo socialista vuol dire a sapere in che direzione sta andando la realtà, e sta andando verso il socialismo, sta andando verso la vittoria del proletariato». Gli artisti dovevano fissare questa visione in forme rigidamente prescritte dallo Stato. Il nuovo scrittore sovietico non era più il creatore di opere d’arte originali, ma un cronista di racconti già contenuti nel folclore del partito. Orlando Figes, La danza di Nataa.
«Suppongo», scrisse Gor’kij], «che la maggior parte dei 35 milioni di affamati morirà... Però morirà la gente semiselvaggia, sciocca e cupa dei villaggi russi... e sarà sostituita da una nuova razza di persone istruite, ragionevoli, piene d’energia» M. Heller e A. Nekriè, Storia dell’URSS.

Nella sua forma classica, stabilita da uno dei primi romanzi di Gor’kij, La madre (1906), la trama incoraggiata dal partito era una versione bolscevica del Bildungsroman: il giovane eroe operaio si unisce alla lotta di classe e grazie agli insegnamenti dei compagni di partito perviene a una più elevata coscienza di classe. A questa trama fondamentale alcuni romanzi successivi aggiunsero nuovi elementi: Capaev di Dmitrij Furmanov (1923) fissò il modello dell’eroe della guerra civile, mentre Cemento di Fédor Gladkov (1925) e Come fu temprato l’acciaio di Ostrovskij fecero dell’operaio comunista un essere prometeico capace di soggiogare le forze più indomite della natura selvaggia. Anche gli scrittori più autorevoli venivano costretti a modificare le loro opere qualora non fossero fedeli a questa dossologia. (L’esempio più famoso è quello di Aleksandr Fadeev. Nel 1946 egli vinse il premio Stalin con La giovane guardia, un romanzo sull’organizzazione giovanile studentesca nell’Ucraina occupata durante la seconda guerra mondiale. Accusato dalla stampa per aver sottovalutato il ruolo del Partito, Fadeev fu costretto ad aggiungere nuovo materiale al romanzo. Questa versione ampliata, che uscì nel 1951, fu elevata al rango di classico del realismo socialista). Orlando Figes, La danza di Nataa.

«Nel 1933 Stalin e Gor’kij decisero di mostrare all’intellighentzija, perché ne cantasse le lodi, il canale che avrebbe unito il mar Bianco al mar Baltico. La mano d’opera era gratis: i detenuti, tra cui molti «politici». Avevo saputo che tra loro c’era mio fratello, così accettai di buon grado l’invito a quella «trasferta artistica». Partimmo in più di centoventi «ingegneri dell’animo umano» tra nomi illustri e meno illustri. Ci scarrozzarono in lungo e in largo esortandoci a dialogare con i lavoratori per lo più scelti fra i delinquenti comuni che scontavano condanne brevi. Tutti, all’unisono, si dichiaravano felici della rieducazione: la «riforgiatura» attraverso il lavoro. Già da qualche settimana, in previsione del nostro arrivo, gli davano cibo più sostanzioso del consueto misero rancio. Quanto a noi... storioni in gelatina con ciuffi di prezzemolo in bocca, maialini arrosto, salame, prosciutto cotto, formaggio. E bottiglie di vodka, vino, champagne, acqua Borzhomi. Quell’abbuffata mentre al Sud la gente crepava di fame mi tolse l’appetito per tutto il tempo in cui partecipai alla stesura di Belomorkanal, edificante opera collettiva... Non la troverà in biblioteca, io stesso non ne ho più una copia. Il libro venne tolto dalla circolazione appena uscì: nel frattempo erano morti (non di malattia, s’intende) alcuni degli autori. Riuscii a scovare mio fratello Vladimir. Grande filologo, conosceva trenta lingue. Ha tradotto il De vulgari eloquentia. Da lui ho imparato molte cose. Era un uomo profondamente religioso. Quando lo arrestarono, nel 1929, lavorava per l’accademico Marr, famoso linguista. Avevamo perso da tempo i contatti. Cercai di non piangere, vedendolo. Gli sussurrai: «Mi riconosci?» «No» rispose lui in tono fermo: aveva paura, e non certo per sé. Dopo di allora ne persi ogni traccia. Mi dissero che era stato condannato a dieci anni di lager senza diritto alla corrispondenza. Avrei dovuto capire cosa nascondeva quella formula: i defunti non scrivono». Bevve un po’ d’acqua. Fu il suo unico discorso filato, senza digressioni. Viktor klovskiJ (in S. Vitale, A Mosca, a Mosca!).
Un ingegnere addetto a una cava del lago Onega, da cui si estraeva il porfido per il mausoleo di Lenin, mi raccontò il discorso che aveva tenuto agli operai della cava, quasi tutti contadini deportati. «Tutte le grandi epoche lasciano grandi monumenti dietro di sé», aveva detto. «Il mondo ammira ancora le Piramidi sebbene non resti più traccia né dei faraoni che le fecero erigere né degli schiavi che perirono edificandole. Il mausoleo di Lenin deve essere il monumento indimenticabile della nostra grande epoca e noi non dobbiamo risparmiare né sforzi né sacrifici per costruirlo». Questo discorso fu applaudito dai deportati, dai rappresentanti del sindacato e del partito. Nessuno prestò attenzione a quella sua allusione agli schiavi egizi. Nel paese della grande menzogna.