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 2022  aprile 01 Venerdì calendario

Identikit del soldato di Putin

Ogni generazione risponde alla guerra con innocenza. Ogni generazione poi vive la sua disillusione sempre dopo aver pagato un prezzo tremendo. Il mito della guerra, le bugie di quelli che la provocano, la droga del combattere hanno sempre bisogno di esser provati. I miti dell’eroismo incombono su di noi per distrarci, per ingannarci. Quelli che potrebbero raccontare la verità devono tacere o preferiscono dimenticare. Gli Stati, soprattutto quelli autoritari, hanno bisogno che i miti e le bugie sopravvivano.
Questo ho pensato guardando le fotografie del funerale di un soldato, un ufficiale dei Marine russi ucciso in Ucraina. Il funerale dunque di uno degli invasori, un soldato dell’esercito che ha aggredito l’Ucraina.
Se fossi in Russia andrei subito in una delle cittadine o dei villaggi da cui arrivi la notizia del funerale di un caduto. Perché è in quell’ultimo contatto tra i vivi e chi è stato ucciso, soprattutto in circostanze così disperate e terribili, che ogni civiltà, cultura, ogni esser uomini tra gli uomini si svela completamente, senza mediazioni. E anche quando qualcuno cerca di travestirla e di usarla a suo modo la morte, quella morte, basta sentire la voce, lo strazio dei vivi, guardarli, restare in mezzo a loro in silenzio perché la verità emerga e ti sommerga.
Andrei al funerale perché vorrei capire. Capire perché i ragazzi russi combattono in Ucraina, perché obbediscono agli ordini, perché uccidono e uccidere è sempre un affare sordido. Con cui è difficile convivere. Per gli ucraini si può intuire. Sentono che la loro causa è giusta, tutto è semplice: ci hanno aggredito combattiamo e uccidiamo e moriamo perché questo è il nostro dovere e gli altri non ci hanno lasciato altra scelta.
Ma i russi, i ragazzi russi, soprattutto quelli che le difficoltà forse impreviste di un attacco fin da subito scombinato, complicato, gli arruolati della leva, i non specializzati nell’arte professionale della morte, che si dovrà in schiere sempre più numerose prelevare dal ruolo che gli era stato assegnato di ultima risorsa, quelli perché combattono? Dopo aver visto morire già diecimila, forse quindicimila compagni. Si risponde: la paura della tremenda punizione, una disciplina feroce che può farti pagare il rifiuto con la morte. Non c’è nessuna punizione che possa tenere in piedi un esercito contro la sua volontà, senza una ragione per combattere. In fondo la rivoluzione russa del 1917 è stato un gigantesco sciopero militare. I contadini insaccati nelle loro lacere uniformi non credevano più nella guerra e nello zar, il Piccolo Padre che l’aveva ordinata. Si sono fermati: basta così.
Nel 1941 i ragazzi russi, e ucraini, che sconfissero l’esercito di Hitler erano la generazione di Stalin, erano nati e cresciuti sotto lo sguardo implacabile del grande georgiano. Gli Ivan di allora, i fantaccini, l’equivalente del Tommy britannico e del Fritz tedesco, combatterono una guerra che sfidava il senso delle proporzioni: nei primi sei mesi l’armata rossa lamentò quattro milioni e mezzo di morti e due milioni e mezzo di prigionieri! I campi di battaglia erano distese di cenere e acciaio brunito dal fuoco. Era una generazione educata in base ai precetti di una delle dittature più ambiziose della storia, portavano in sé una lente che faceva vedere il mondo nei colori del marxismo, si sentivano l’avanguardia della rivoluzione, il gruppo di assalto di una guerra giusta.
I ragazzi sovietici che hanno combattuto in Afghanistan negli anni ottanta del secolo scorso erano i figli della generazione Breznev, i figli della stagnazione, della burocrazia marxista che scandiva parole d’ordine di cui la guerra svelò la bugia. Infatti combatterono male, senza voglia, da disgustati, da sconfitti.
Allora i morti russi di oggi. I corpi dei morti in battaglia conservano una forza inquietante. Parlano. Ammucchiati come legna, gettati in file ai lati delle strade, contorti: i morti russi che ho visto nelle strade di Grozny, in Cecenia. Nessuna delle loro morti era stata pulita come si vede nei film. Erano morti atroci, difficili, lunghe, che avrebbero dovuto forse tormentare anche coloro che le avevano inflitte. Ho guardato negli occhi spalancati dei morti sperando che fossero chiusi. Perché pare che ti chiamino dal loro mondo di tenebre. Anche i combattenti più implacabili hanno paura di quegli occhi e li coprono con un telo o si chinano a chiudere le palpebre. Gli occhi dei morti che ci guardano da un mondo di cui abbiamo paura ci dicono che solo loro sanno che cosa è la fine della guerra.
Il funerale del marine dunque: il volto del morto non si vede, la bara è già stata chiusa e viene portata fuori dalla chiesa in cui si è svolto il rito da soldati in alta uniforme. Ma lo sguardo è attirato dal ragazzo, anch’esso in divisa, poco più che adolescente che tiene davanti a sé con paura e delicatezza come se stringesse una icona, la foto della vittima. E alle sue spalle altri due figure in divisa con vistosi baschi rossi che gli fanno da scorta, anche loro giovanissimi. È nei loro occhi di vivi che ho provato a scrutare. Per intuire, per capire. Dentro c’è come una immensa immisurabile angoscia, il senso dell’irreparabile che è avvenuto, la consapevolezza palpabile di un rischio che incombe, di un incomprensibile maleficio di cui si è vittime. Vorrei che il grandangolo magicamente si aprisse ed entrassero nel campo visivo anche i parenti, i vicini, gli amici, i semplici curiosi venuti ad assistere, a piangere, a guardare. Allora capiremmo quanto tempo può durare la guerra di Putin, quanto nella Russia remota, dimenticata, immersa nel silenzio e nell’abbandono le sue minacce e le sue promesse di potenza abbiano ancora senso, siano ancora ascoltate.
I ragazzi arruolati nella invasione dell’Ucraina sono la generazione Putin, sono cresciuti nel ventennio che dietro una vernice di misero consumismo da poveri è stata nutrita solo di un ideale di potenza, del riscatto della forza. Il putinismo realizzato in fondo è tutto nelle sfilate militari sulla piazza rossa, riedizione in tecnicolor dei riti sovietici. Non credo basterà per farli combattere a lungo. Ma nella guerra si formano i "gruppi primari" tra soldati, lo spirito di corpo, la identità che stringe chi cerca di sopravvivere. E poi c’è l’odio. L’odio contro quelli che hanno ucciso i compagni e gli amici, quelli che ti vogliono uccidere, quelli che sono colpevoli perché stanno al di là della trincea e non si arrendono e non ti lasciano vincere e tornare a casa. E questo è lo scenario peggiore.