Corriere della Sera, 31 marzo 2022
Sul nuovo libro di Giuliano Amato
Da poco, e per poco purtroppo, presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato sa dare semplicità e chiarezza ad argomenti complessi. Li rende qualche volta persino avvincenti. La conferenza stampa con la quale ha illustrato, a inizio anno, le scelte della Consulta sui referendum si iscrive tra le pagine migliori della comunicazione istituzionale e della pedagogia del diritto nel nostro Paese. La figura di Amato – è bene dirlo – giganteggia anche per l’assieparsi di personalità verbose e inconcludenti. Il saggio in uscita oggi per Il Mulino (Bentornato Stato, ma) non è privo di qualche civetteria intellettuale. Eccone una. Le privatizzazioni italiane, giuste o sbagliate, presero avvio all’inizio degli anni Novanta, con il governo Andreotti, dopo la firma del Trattato di Maastricht, ma fu «l’esecutivo successivo» ad accelerarne il processo. Con la trasformazione «dalla sera alla mattina» degli enti di gestione delle Partecipazioni statali in società per azioni. Un decreto legge, nascosto in fondo all’ordine del giorno di un Consiglio dei ministri «con una motivazione tutta endogena». «Era un alt – scrive Amato – che veniva imposto ai partiti, espulsi, da quel momento, dal sistema in cui erano penetrati tanto a fondo». Ma chi era il premier allora? Il lettore lo scopre solo andando alle minuscole e accurate note: lo stesso Amato.
Quel passaggio storico, dal quale il suo autore sembra ritrarsi per ragioni di stile, fu come uno spartiacque. La fine di un’epoca, quella delle imprese pubbliche troppo spesso piegate alle ragioni (anche finanziarie) dei partiti. Vittime di una lottizzazione selvaggia della quale il Partito socialista, di cui Amato era esponente di primo piano, fu parte largamente attiva. È bene ricordarcelo nel momento in cui si assiste al ritorno dello Stato nell’economia. Di fronte a emergenze come la pandemia o scelte di transizione, energetica e digitale, l’impegno pubblico è insostituibile. Il mercato non è sempre la risposta giusta. Anzi, a volte, il suo ruolo può essere negativo e contrario all’interesse pubblico che la politica ha il dovere di tutelare. Sta accadendo – ultimo esempio clamoroso – per il gas con le troppe rendite di posizione e l’eccesso di finanziarizzazione dei contratti. E ancora: alcuni investimenti a lungo termine in infrastrutture e ricerca li può fare solo lo Stato. Inutile poi dire che abbia prevalso, per tanti anni, una smodata confidenza nelle virtù dei privati. Se ne dimenticarono i vizi, se ne ampliarono i difetti. Superfluo notare che molte delle privatizzazioni italiane non crearono (come lo stesso Amato all’epoca si augurava) gruppi privati più forti e capaci di reggere la concorrenza internazionale. Al contrario, tra i pretendenti emerse una certa predisposizione a rifugiarsi negli ex monopoli pubblici (come le autostrade), a trasformarsi in finanzieri anziché continuare a essere industriali. Ma tutto ciò non può far dimenticare che lo Stato imprenditore, dopo la famelica scalata della partitocrazia, venne costretto alle cessioni dall’accumularsi di debiti, suoi e delle sue finanziarie (chi ricorda l’Efim?) che mantenevano in vita aziende decotte o gestivano male altre (non tutte) che sarebbero potute andare meglio. Arrivò a perdere persino l’Eni!
Chi scrive fatica a dire bentornato Stato. Perché in un Paese che ha un’avversione storica alla concorrenza e al mercato, il rischio che si rinnovino difetti e inefficienze è tutt’altro che remoto. La tendenza poi a considerare lo Stato come «imprenditore di ultima istanza», «protettore misericordioso» di tutti, costi quel che costi, senza alcun vincolo di bilancio nella sconsiderata leggerezza di contrarre debiti, è invece un pericolo reale. E già se ne vedono le conseguenze. Soprattutto perché provoca una sorta di deresponsabilizzazione collettiva. Perché darsi da fare e pagare le tasse quando lo Stato è visto come una sorta di «civica provvidenza»? Nell’illusione che esista addirittura un «benessere di cittadinanza»?
Contano i fatti, non le ideologie. Amato non perde l’occasione di punzecchiare gli economisti «spesso propensi a dare un valore prescrittivo alle dottrine in cui si riconoscono». A dispetto della realtà. «Lo scopo qui – scrive l’ex presidente dell’Antitrust – non è dimostrare né l’essenzialità dello Stato né l’essenzialità del mercato, ma capire come e se i due possono felicemente interagire». Citando Douglass North, ma anche la scuola di Friburgo degli ordoliberali, Amato ricorda che l’economia ha bisogno di istituzioni efficienti, regole certe, controlli severi, altrimenti si scolora facilmente in una giungla insidiosa, dominata dalla prepotenza e non dal merito. Ma lo Stato, nell’intervenire sulle dinamiche di mercato, può facilmente «essiccare la fonte nella quale si abbevera». Ovvero impoverire il Paese. Agli inizi del Cinquecento Spagna e Inghilterra avevano pari forza economica. Madrid, incapace di rinunciare a un gettito fiscale che pagasse le sue armate, «tenne fermo l’uso a pascolo delle sue terre che garantiva un’entrata fissa per ogni capo di bestiame». E declinò per colpa delle sue (miopi) scelte. Londra, al contrario, fiutò le potenzialità del capitalismo commerciale e guidò lo sviluppo europeo. Anche oggi istituzioni efficienti «diminuiscono, non aumentano i costi di transazione che concorrono alla crescita e non ne distorcono i frutti ai propri fini».
Il ritorno dello Stato, nell’analisi di Amato, è oggi «depurato o depurabile dalle patologie che tanto avevano concorso in passato a renderlo inefficace», ma possiede – ed è questa la novità – una sconosciuta forza intrusiva. L’estensione del cosiddetto golden power se protegge attività strategiche, attribuendo un potere prescrittivo alle istituzioni pubbliche, è anche un limite agli investimenti esteri. Il moltiplicarsi di sussidi crea una forma di assuefazione all’aiuto pubblico e ha un visibile dividendo di consenso politico della cui rilevanza ci si accorgerà quando (e se) tali misure saranno revocate. La forza delle autorità di regolazione – che nel secolo scorso non c’erano – sarà tanto maggiore quanto sarà riconoscibile la loro indipendenza. Ovvero se si dimostreranno vicine ai cittadini e ai consumatori e non catturate dai soggetti regolati. E se nei momenti di crisi, come durante una pandemia, il potere centrale è indispensabile, insostituibile, quest