la Repubblica, 31 marzo 2022
Quei palloni perduti sul tetto della chiesa
Il pallone si è fermato ad Ascoli. Sul tetto della chiesa di San Tommaso. Decine di esemplari, risalenti all’età della pietra che rotola, quando il patrono era San-tos, Super San-tos, e tutti i ragazzi d’Italia correvano come Tardelli perché ogni partita era una finale mondiale, bastava “fare che”. Sparati lassù da tiri alla viva il parroco. Affiorati come reperti durante la pulizia del tetto. Venuti giù a pioggia, come in un pomeriggio definitivo, al termine di una qualunque stagione. In un curioso contrasto, un’immagine così antica (una chiesa romanica costruita un millennio fa, una gru e la lingua perduta di cento palloni) si è diffusa in tutta Italia con la più moderna delle tecnologie, passando di schermo in schermo, dribblando quello, novecentesco, della televisione. Con i palloni è venuta giù anche la nostalgia, che un po’ confonde la prospettiva e un po’ s’innamora della retorica.
Era un altro tempo, questo è certo, per altre generazioni, bambini e ragazzi che sono cresciuti e hanno messo al mondo altro da sé. Quei palloni perduti parlano a quelli che c’erano, che tiravano in alto e in largo perché il campo non aveva limitazioni chiare, che giocavano ovunque perché tutto poteva diventare un’area di rigore e in ogni spazio entrava una porta. Davi loro un parco e lo riempivamo di presunti rettangoli, in realtà trapezi, paralleli o perpendicolari, rendendo ogni sfida un triangolare che manco poi il trofeo Birra Moretti. Quelli sanno che cosa significava perdere il pallone nelle mille trappole della realtà: sul balcone del vicino; oltre la rete di recinzione degli orti comunali; sul tetto, appunto, dove trovava famiglia. Per riaverlo hanno confidato nella gentilezza degli sconosciuti, spesso invano. Ricordano la maschera feroce del carabiniere in pensione che usciva sulla terrazza, raccoglieva il disperso e pronunciava la frase: «Adesso ve lo buco». Sono stati vittime dell’indifferenza dei giardinieri e, a quanto pare, anche dei sacerdoti, dei sacrestani, o dei campanari, perché li avrà ben visti qualcuno dal campanile, quelle decine di palloni. O nell’alto dei coppi nessuno saliva mai? L’educazione alla vita che verrà è spesso una collana di preghiere non esaudite. Riavere il pallone è stata una di queste.
Poi sono venute le proibizioni, il fastidio organizzato per la marmaglia giocante. I cartelli, addirittura, con segnali di divieto che non esistono all’esame della patente, il tondo rosso barrato con palle e palloni d’ogni genere e la scritta “Vietato praticare giochi molesti in tutta l’area”. Molesta è una piazza morta, dove di giorno scorre la noia e di notte quel defibrillatore innaturale che è, o era, la movida, continuazione del divertimento con scarsi mezzi. Multe, a “chi arreca intralcio o procura danni”. A che cosa? Al libero transito. Delle vetture e delle merci. Degli spritz e dei monopattini.
In una iperbole d’opinione si è già detto che scene come questa di Ascoli, forse perché avvenuta nella regione da cui il ct della nazionale di calcio proviene e che vorrebbe tanto visitassimo, spiegano l’eliminazione dal Mondiale della sua squadra. Esagerazioni. In quella piazza non c’è un procuratore, non ci sono i presidenti di A con i loro diversi appetiti, non ci sono gli ambulanti del senno di poi. Magari c’è il mercato, non il calciomercato. E anche se la si liberasse, nonostante l’invito degli assessori a riprendersi le strade dopo due anni di ritiro cautelare per la pandemia, la sensazione è che bambini e adolescenti si siederebbero di lato, su qualche panca, a fissare lo schermo dei cellulari: «Oh guarda ‘sta foto dei palloni in piazza, te la mando!».