Il Messaggero, 31 marzo 2022
Intervista a Julio Velasco
Julio Velasco è uno degli uomini più importanti della storia sportiva italiana. È stato l’uomo che ha portato la pallavolo maschile ai massimi livelli mondiali 1990 e 1994, cinque World League, in totale 30 titoli -, ma, oltre ai trofei, ha prodotto un’autentica rivoluzione culturale, dai metodi di lavoro al concetto del club Italia che permise, tra 1997 e 1998, di far decollare il volley femminile, fino alle esperienze dirigenziali nel calcio, alla Lazio e all’Inter. Oggi, celebrati i 70 anni, è direttore tecnico del settore giovanile maschile della pallavolo. Velasco è un visionario: sta al volley come Guardiola sta al calcio.
Velasco, l’Italia è davvero un paese per vecchi?
«Non si può dire che l’Italia non pensi ai giovani perché i ragazzi hanno ottime condizioni di vita. In Italia domina però l’istinto conservatore. Le generazioni più datate tendono a rallentare i cambiamenti e la modernizzazione».
Un problema di sistema, quindi.
«Io parlerei di mediazione costante, a tutti i livelli. A mio avviso, questa paura del nuovo è ancora legata al ventennio fascista. Percepisci il timore del cambiamento nei discorsi quotidiani. Credo che sia importante porsi di fronte alle cose in modo diverso, ma invece si impone la mediazione: sempre e comunque».
Oggi è in atto uno scontro ideologico tra quelli che furono giovani negli anni Sessanta e Settanta e la Generazione Z, ovvero i nati tra il 1995 e il 2010.
«In Italia si usa questa espressione: i giovani di oggi. La detesto. Negli anni Sessanta la protesta giovanile fu artefice di enormi progressi nella società civile. Vorrei ricordare che all’inizio, anche i Beatles furono osteggiati, persino censurat».
Osteggiare i giovani significa ostacolare il futuro.
«Facciamo un elenco di tutto quello che di positivo esprimono le nuove generazioni: sportivi, musicisti, studenti, ragazzi e ragazze impegnati nella solidarietà. Rimproveriamo ai giovani di stare sempre al telefonino, quando in realtà tutti stiamo incollati al cellulare».
Diversi indicatori riguardanti i giovani, dall’occupazione alla scuola fino alla pratica sportiva, sono allarmanti.
«In Italia c’è un pessimismo eccessivo. Non ci si rende conto di vivere in uno dei pochi paesi ricchi del mondo. Ci confrontiamo sempre con chi sta meglio e non guardiamo chi sta peggio. E qui arriviamo allo sport. Mi chiedo: era tutto ok nove mesi fa quando l’Italia vinse gli europei? Adesso che la nazionale non parteciperà al mondiale siamo invece di fronte al disastro totale? La verità è che c’è da cambiare anche quando si vince. E quando si perde, bisogna smaltire l’incazzatura e riflettere bene sulle scelte da compiere. Prendiamo esempio dalla cultura anglosassone: semplificare per risolvere i problemi».
Mancini ha deciso di restare.
«Conosco Mancini dai tempi della Lazio. Gli ho mandato un messaggio dopo la sconfitta con la Macedonia e sono contentissimo che abbia preso questa decisione. Lui ha sempre creduto nella nazionale e per questo mi piace. Il successo più importante ottenuto da Roberto all’europeo non è stato vincere, ma credere nel successo».
Altro tema di discussione è l’abbassamento della qualità nel nostro calcio.
«In Italia negli ultimi anni c’è stata la contrapposizione tra giochisti e risultatisti. Oggi lo sport in generale pone invece un altro problema: quello della velocità. Se io sono giochista, ma sono lento, non vado da nessuna parte. È quello che ci insegna la Premier, dove si pratica un calcio più rapido. Perché in Italia i giocatori frenano quando si avvicinano all’area? Suggerisco un’ipotesi: prevale la paura di perdere il pallone e di incassare il contropiede. Il coraggio è anche rischiare di perdere il pallone e lottare per riconquistarlo. Il problema del gol accompagnò l’Italia pure durante l’europeo, ma fu superato perché la nazionale giocò un calcio veloce».
L’allenatore dell’Under 21, Paolo Nicolato, ha lanciato un altro tipo di allarme: pochissimo spazio per i giovani.
«Un tema importante. Qui entriamo in un terreno complesso, dove bisogna parlare di mentalità e di gestione di un’azienda. Quando un club di calcio ha difficoltà economiche, i tagli colpiscono staff sanitario e settore giovanile. Non prevale mai un altro tipo di ragionamento, ovvero alleggerire la rosa della prima squadra, dove trovi sempre elementi inutilizzati, dal minutaggio ridotto».
Non produciamo più talenti come un tempo.
«Dissi una volta: agli italiani non piacciono i giocatori italiani. O meglio, al giocatore italiano non si perdona nulla. E invece bisogna aiutarlo, stimolando l’autostima e dimostrando che davvero crediamo nella nostra missione. Perché non credere di costruire una nazionale capace di vincere il mondiale nel 2026? Mancini, restando, ha già lanciato il messaggio».
Come intervenire per risolvere alcuni problemi?
«Serve concretezza. I giovani giocano poco? Bene, troviamo una soluzione per dare loro maggiore spazio. I settori giovanili sono in difficoltà? Parliamo con i responsabili, sentiamo la loro voce, confrontiamoci. I tecnici sono sottopagati? Proviamo ad abolire il precariato dirottando maggiori risorse nei vivai e tagliando gli sprechi reali».
Non è tutto da rifare, insomma.
«Assolutamente no. Bisogna rialzare la testa, correggere gli errori e migliorare i punti di forza. L’Italia ha potenzialità enormi: talento, creatività, l’intelligenza. Toglietevi quella nuvola di pessimismo sopra la testa e guardatevi intorno: vi accorgerete che essere italiani è una bella cosa».