Il Messaggero, 31 marzo 2022
Intervista a Andrei Kurkov
«Ora mi trovo in un appartamento situato in una cittadina nell’ovest dell’Ucraina. Ho lasciato Kiev dopo le prime giornate di guerra, dove sono rimasti molti amici e famigliari. La situazione non è calma. Ci sono problemi nell’approvigionamento di cibo e medicinali, ma si sopravvive». Andrei Kurkov, il più noto scrittore ucraino contemporaneo, parla dalla terra di confine con l’Ungheria, raccontando la dimensione intima e culturale della guerra.
Kurkov, che scrive in russo e le cui opere sono tradotte in decine di lingue, insieme ai romanzi, negli ultimi anni è stato un testimone e narratore diretto degli stravolgimenti militari, politici e sociali ucraini. Domani nelle librerie italiane arriverà Jimi Hendrix a Leopoli (Keller editore, 400 pagine, 18.50 euro, traduzione dal russo di Rosa Mauro) che è un omaggio alla capitale culturale e intellettuale dell’Ucraina: «La sua storia è complessa, il nome ha avuto numerose variazioni, i sapori e la musica sono inconfondibili dice Kurkov. Lo scrittore Leopold von Sacher-Masoch ha vissuto a Leopoli. Sigmund Freud è approdato qui. L’intera storia europea ha lasciato delle tracce nella città che è la protagonista del romanzo. Alcuni eroi del libro vivono ancora a Leopoli e possono essere visti nella parte antica, dove bevono il caffé nella via armena o comprano il cibo al mercato galiziano».
Che cosa accade in guerra a uno scrittore?
«I romanzi devono attendere il silenzio delle armi. Ora il ruolo degli intellettuali è descrivere quanto avviene nel Paese».
Qual è lo scenario prodotto dai bombardamenti?
«I missili e le bombe russe rappresentano il problema principale. Nelle zone più colpite dai bombardamenti l’aria è irrespirabile. Dopo ogni bombardamento, anche nei dintorni e nella stessa Kiev, si propagano incendi e il fumo nero sembra avvolgere tutto».
Che cosa scandisce il ritmo della vita?
«Ormai dipende dalle sirene, che suonano dalle cinque alle dieci volte al giorno per i raid aerei. Le persone sono stanche di scappare in continuazione dai bombardamenti e restano nelle proprie case con la speranza che non le colpisca una bomba o un razzo. Tuttavia non si resta impassibili alle sirene, come ai coprifuoco ordinati dai militari che proibiscono di uscire dalle abitazioni».
È possibile adattarsi alla guerra?
«Quando non ti distrugge fisicamente. A Kiev, come nelle altre città, la fatica psicologica è pesante, perché la tensione e la pressione sono costanti nell’attesa di assistere dove cadrà ed esploderà il prossimo ordigno. I bambini finiscono per distinguere il rumore dell’esplosione di un razzo o una mina. L’orrore e banalità feroce della guerra diventano parte della vita».
Ha mai pensato di lasciare il Paese?
«No, dall’inizio dell’attacco la decisione è stata di rimanere in Ucraina. L’esodo di massa coinvolge già quasi quattro milioni di persone, per la maggior parte donne e bambini. La massa di rifugiati si è spostata nella zona occidentale del Paese, restando dentro i confini nazionali. Attendono l’opportunità di tornare a casa».
Il tempo di guerra ha trasformato Zelensky che in precedenza non aveva esitato a criticare?
«Quando è entrato in carica non aveva esperienza politica. La sua figura interpretava un’evoluzione generale della politica verso lo show. Ora gioca un ruolo importante. È decisivo che il Presidente, il governo e il parlamento possano lavorare nell’ambiente più difficile. Ciò mantiene la fiducia degli ucraini. Ma i pensieri e la fede della popolazione sono rivolti innanzitutto a chi è sul campo di battaglia».
Il patrimonio culturale ucraino è un bersaglio militare?
«Nessuno si aspettava il bombardamento di monumenti e luoghi di culto. L’attacco dell’esercito russo non distingue tra museo, ospedale o università. Gli edifici possono essere ricostruiti. È impossibile restituire la vita agli artisti, scrittori, attori e traduttori uccisi dalla guerra. In un mese si contano già molte vittime. Negli anni Trenta del Novecento gli scrittori e poeti ucraini furono sterminati. L’eventuale occupazione russa produrrebbe una forte repressione culturale».
Gli intellettuali sono in pericolo?
«Scrittori, giornalisti, storici, attivisti, chiunque ritenga che l’Ucraina deve restare indipendente e diventare parte dell’Europa è considerato nemico della Russia. Nei territori occupati le persone spariscono. Agenti dell’Fsb girano per le strade con gli elenchi dei nomi e degli indirizzi delle persone a cui danno la caccia».
Lei è negli elenchi?
«In Russia i miei libri non sono più stampati dal 2008 e indisponibili dal 2014. Ho informazioni, ancora da provare, di essere nella lista dei ricercati, ma non ci penso».
L’ha colpita qualche storia in particolare?
«Nel suo appartamento a Kiev, vicino alla stazione, l’editore Mykola Kravcenko, seduto alla scrivania, non smette di lavorare, seppure sia consapevole che a breve non potrà far uscire libri. A Buca, la cittadina degli scrittori e dei compositori nei pressi di Kiev, mi ha ferito l’uccisione di Oleksandr Kisljuk, noto traduttore dal greco antico e da altre lingue, docente universitario, da parte di soldati russi. Grazie a lui gli ucraini possono leggere le opere di Aristotele, Tacito, Tommaso d’Aquino e di molti altri scrittori antichi».
Quale sarà il riflesso culturale della violenza?
«In Ucraina non esisteva una letteratura di guerra. Ora si svilupperà una letteratura sempre più militante, politicizzata, e non è detto che nascano libri migliori. Con gli scrittori schierati al fronte, ovunque l’influenza della propaganda è tangibile».
Che cosa rappresenta la prospettiva dell’Unione Europea per l’Ucraina?
«Significa vita senza corruzione con uno Stato di diritto e sociale che funzioni».
Quale obiettivo ha raggiunto la Rivoluzione di Maidan, che lei ha vissuto e narrato in Diari ucraini?
«L’alternativa equivaleva alla perdita dell’indipendenza e alla rinuncia del futuro europeo. Senza Maidan saremmo già la Bielorussia. Questa reazione alla guerra per salvare la nostra autodeterminazione è il passaggio finale verso la formazione della nazione ucraina».