Il Messaggero, 30 marzo 2022
Il diario di Vanzina
Un «Diario diurno». Profondo e lieve. Alla Flaiano. In cui Enrico Vanzina parla di se (non di Ego), di Roma, dell’Italia e lo fa raccontando un’idea di civiltà, fatta di conversazioni, di incontri, di film e di libri, di vacanze feconde e faconde, di bei posti e di belle persone, di amicizie e di futuro anche quando parla di cose già avvenute e di uomini e donne che non ci sono più.
Vanzina, lei sembra stare avvinghiato con le unghie e con i denti a un mondo che parrebbe sparito, a giudicare dai toni (sguaiati), dai mezzi (i social) e dallo stile (la dittatura del mainstream) che si sono impadroniti della scena. Non si sente fuori tempo?
«Io sono cresciuto in casa con mio padre, Steno, e quando tornava ci diceva: sapete, ieri sera a Via Veneto con Flaiano, Brancati, De Feo abbiamo parlato di questa cosa, di quest’altra... Nel mondo da cui provengo, la conversazione, i racconti buffi e spesso emblematici ti davano una chiave per leggere la realtà e le trasformazioni in corso. Un giorno Flaiano è venuto a mangiare da noi e ci ha detto: mi sono accorto che si chiamano tutte Samantha».
Con l’acca ovviamente.
«Ma certo, come Deborah. Questa mia impronta familiare mi ha spinto a leggere tutto ciò che c’è dietro le quinte e a cercare il senso delle cose. Abbiamo frequentato molto il mondo del cinema che era legato a quello degli scrittori i quali scrivevano trame per mangiare. Age e Scarpelli, Zapponi, Benvenuti e De Bernardi, Scola, Maccari, Pirro, Suso Cecchi d’Amico... I grandi sceneggiatori raccontavano la gente, parlavano del droghiere e non di Proust, del pensionato su una panchina che magari somigliava a Togliatti, o del lattaio che pareva Arbasino. Sono cresciuto con persone che parlavano per raccontare. E ho capito che l’osservazione del quotidiano è il più grande racconto che si può fare».
Sì, va bene: però questo suo approccio la fa sembrare un nostalgico. È un diarista passatista?
«Rossella O’Hara chiude Via col vento dicendo: domani è un altro giorno. Io sono impressionato da questo mondo che pensa solo al presente e al domani. Come se avesse cancellato il passato. Perché lo fa? Perché non ce l’ha. E quindi non può ricordare nulla di interessante. Invece bisogna vivere sapendo che il presente può diventare un ricordo».
A proposito di passatismo: in questo Diario diurno 2011-2021 lei non fa che parlare di giornali. Non si è accorto che ci sono i social?
«Da tre mesi sono entrato su Instagram, prima mi ero sempre rifiutato. Lei sa che cosa faccio lì? Illumino molte cose del passato. E il popolo dei social gradisce tantissimo. Migliaia e migliaia di visualizzazioni. Quando il passato viene riproposto in maniera divertente, i millennials impazziscono. Mi sono accorto che i nostalgici sono loro. Vorrebbero tutti tornare agli Anni 80».
Ma lei adora i giornali. Non è ormai una follia?
«Il mio secondo lavoro, e l’ho scelto tardi, è fare il giornalista. Quello che scrivo sul Messaggero mi entusiasma, perché sento di essere uno dei sopravvissuti che ancora crede che la parola su una pagina di giornale possa, come il cinema, far riflettere, far ridere, far compagnia: insomma portarci in un mondo consolatorio e istruttivo».
Che cosa rappresenta il Messaggero per lei?
«Se fossi il personaggio di un film di commedia direi: una botta di culo. Mi ha obbligato a osservare ancora di più la vita dei romani, quella degli italiani e un po’ anche la mia».
Il suo è un diario degli errori come quello di Flaiano?
«Sì, gli errori. Mettendo insieme un diario si riesce a ristabilire un po’ di equilibrio sulle nostre verità e su quelle dei nostri amici».
In queste 300 pagine si parla sempre di amicizia. Non è un valore desueto anche questo?
«Non lo sarebbe, per ovvie ragioni. Lo diventa però quando gli amici scompaiono e quel sentimento diventa eterno. Aggiungerei, con un po’ di presunzione, che ricordare gli amici per me è quasi una missione».
Lei sembra un personaggio mondano da jet set e insieme uno scrivano notturno e solitario. Una strana doppia natura?
«Ho vissuto a 360 gradi la vita finta del cinema. Per disintossicarmi, ho puntato tutto sulla solitudine riflessiva. Tra tutte, però, preferisco le mie attività veramente popolari: il calcio, la musica, le donne e la famiglia intesa come complicità».
Questo diario è un lungo elogio della forza della scrittura.
«Io credo nella potenza del racconto. Scrivere significa raccontare, farci entrare in un mondo diverso dal nostro e poi, quando finisci il libro, ti accorgi che quella storia parlava anche di te».
Lei, a pagina 238, si definisce «un liberale pop». Non è un ossimoro?
«Le rispondo con un’altra domanda: ma come si fa a non rispettare i diritti degli altri e le forme di espressione che vengono dal basso?».
Questa è la sua autobiografia?
«No. Le autobiografie hanno un difetto d’origine: uno scrive su se stesso pensando a un altro. Cioè sono le vere fake news».
Ma allora con questo diario alla Flaiano che cosa vuole dimostrare: di essere un marziano a Roma?
«Preferirei essere un romano su Marte che poi torna e racconta».