il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2022
Il memoir di Sophie Calle
Sophie Calle ha quasi 69 anni anni, ma nessuna intenzione di affidarsi a un Ritratto di signora per parlare di sé; meglio un Ritratto dell’artista da giovane: furtarelli a undici anni ai grandi magazzini; spogliarelli a vent’anni “diciotto volte al giorno” fino all’una del mattino”, schivando i tacchi a spillo delle colleghe, pronte a infilarglieli negli occhi o nel cranio; un marito che, ormai in età adulta, “le tira in faccia un bollitore vuoto, un tagliere per il pane, un sofà giallo per due, quattro cuscini, una monografia di Bruce Nauman e un telefono nero che sfonda il tramezzo”. Tutte “Storie vere” che, raccontate da una artista – tra le più struggenti eppur lievi del panorama internazionale –, vanno giocoforza tra virgolette, come la “realtà” per Nabokov. Qui importa solo il “contenuto di verità della menzogna”.
Diario illustrato o album di foto con appunti, Storie vere della Calle, finora inedito in Italia, sarà da domani in libreria con Contrasto, oltre quarant’anni dopo il debutto di Sophie nel favoloso mondo dell’arte: è il 1979-80 quando la francese espone alla Biennale di Parigi Les Dormeurs, una serie fotografica su un gruppo di conoscenti e sconosciuti invitati a dormire nel suo letto e così immortalati, per otto ore di fila, nel sonno. Ancora nel 1999, Calle viene contattata da un 27enne che le chiede di poter dormire nel suo giaciglio per elaborare il lutto di un amore finito. Lei, materialmente, non può ospitarlo; così decide di spedirgli “1 letto, 1 sommier, 1 materasso, le lenzuola nelle quali ho dormito, 2 cuscini, 2 federe, 1 coperta”. Il tutto fa ritorno da Calle l’anno dopo: il ragazzo è guarito.
I testi – iconici e affilati quanto le fotografie – viaggiano a zig-zag nel tempo, dai 9 anni di Sophie a oggi, all’alba dei 70, dal primo amante alla famiglia, bizzarra come la primattrice: la madre, quando vede le opere della figlia esposte al Moma di New York accanto a Hopper e Magritte, si stupisce e le grida: “Li hai fregati!”. Sempre la madre si prepara a morire facendosi la pedicure e dettando il suo epitaffio per la lapide: “Già mi sto annoiando!”. Ora, oltre al camposanto, la signora Monique riposa nello studio dell’artista: “Ho comprato una giraffa impagliata. Le ho dato il suo nome, mi guarda dall’alto” (anche da qui, nella foto in pagina). Il padre, invece, la manda in psicoanalisi per curare l’alito cattivo, mentre i nonni “volevano correggere certe mie imperfezioni a 14 anni. Rifare il naso, nascondere la cicatrice della gamba sinistra con la pelle prelevata dal gluteo e correggere le orecchie a sventola… Fu il chirurgo estetico a mettere fine alle mie incertezze: due giorni prima dell’operazione si suicidò”.
Calle sa trasformare il dolore in gioco, in commedia, quella che solo i francesi sanno imbastire così bene, tra pensosità e ilarità. Il memoir apparecchia un pasticcino via l’altro, ripieno di veleno; ecco il dessert “sogno di fanciulla”, servito a una vergine sessuofobica da un cameriere malizioso e composto da una banana e due palle di gelato, oppure uno dei tanti lavoretti per mantenersi prima dell’illuminazione artistica: posare come modella nuda, ogni giorno per quattro ore, davanti agli aspiranti pittori in accademia. E ancora bizzarrie, come l’acquisto per cento franchi di una lettera d’amore fasulla; i gatti morti perché rimasti chiusi nel frigorifero o strangolati da un amante geloso di condividerne il letto; i vestiti da sposa in valigia da indossare con l’uomo agognato; farsi leccare i seni da un piccolo toro orfano e affamato; sposare un tizio appena conosciuto in un bar di New York; far pisciare il compagno, abbracciandolo da dietro; avere una maternità felina; divorziare davvero, maritarsi per finta, coronando “la storia più vera della mia vita”. C’è da non credere a queste “storie vere”, ma d’altronde l’artista è una fattucchiera, legge i segni premonitori: una striscia rossa sul collo, comparsa per caso in uno scatto della Polaroid, preannuncia un tentato strangolamento e un dado decide, infine, le sorti di due partner simili.
Sophie si definisce una che ha “sempre paura di perdersi qualche cosa”: per questo incappa nell’ennesimo uomo sbagliato, quello del “Maiale” qui in pagina, incontrato per un presunto progetto comune. I due trascorrono la serata in un barbecue: lei fa “la cameriera, ho grigliato salsicce, servito, rigovernato”. Più tardi, sulla soglia di casa, lui le allunga le mani, ma lei lo respinge: “Cos’è che le fa credere che abbia voglia di baciarla?”. E lui: “Comunque lei mangia come un maiale!”.