il Fatto Quotidiano, 30 marzo 2022
La Kharkiv russofona che non si sente russa
Ihor Terekhov deve l’ascesa a primo cittadino della seconda città dell’Ucraina al Covid. Il predecessore e fondatore del partito di Terekhov, è morto di complicazioni dal virus nell’autunno 2020: lui è stato confermato in carica nel voto del novembre 2021. Espressione d’una lista cittadina il cui elettorato è russofono, come la gran parte dei quasi due milioni di abitanti. Ma ora, seduto a una scrivania nei sotterranei di una delle stazioni centrali della metro, indossando una felpa nera con una scritta dorata (mise non militare come quella del presidente Zelensky, ma comunque da ‘politico del fare’) ci tiene a spiegare che “esser russofoni non vuol certo dire esser pro-russi. Benché un quarto dei miei concittadini abbia parenti oltre il confine (che a nord-est dista meno di 40 chilometri, ndr), i militari che ci hanno invaso hanno commesso l’errore di pensare ci sentissimo parte della Federazione russa, e che li avremmo accolti. Ormai noi ci sentiamo una città europea, è dal 2014 che la maggioranza delle persone ha cambiato idea, ha visto la città migliorare, crescere e che possiamo vivere in modo ben diverso da quello del passato regime sovietico. La gente qui parla con quelli delle repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk e sa bene quale è la reale situazione lì”.
Dopo un dettagliato elenco degli obiettivi civili colpiti, ben oltre mille e, glissando sulla situazione militare nei dintorni della città, le parole che usa di più sono “bancomat” e “infrastrutture”: “I volontari hanno iniziato a ripulire la città, a esclusione della zero zone (le aree dei bombardamenti che ieri si erano notevolmente ridotti, ndr), i barbieri hanno riaperto, poi toccherà a negozi e uffici, torneremo una città normale: gli approvvigionamenti non sono mai stati un problema. Il 30% della popolazione se ne era andata, ma ora comincia a tornare”. Alla domanda se avesse ricevuto offerte o minacce da parte dei russi Terekhov strizza gli occhi ironici: “Ho ricevuto un messaggio con proposte di negoziati, ma che potevo rispondere? Noi non pensavamo che sarebbero venuti a ucciderci e a distruggere la nostra città, a deportarci a migliaia oltre-confine. È vero ci sono sabotatori in giro, e ringrazio la polizia per la mia sicurezza, la mia casa è stata presa di mira un paio di volte, e quella nelle strade. I russi sono arrivati sostenendo di volerci ‘denazificare’, ma stanno annientando i monumenti, i simboli della nostra storia, tra cui il memoriale dell’Olocausto alle porte della città. Non siamo fascisti, ma antifascisti: mio padre ha combattuto contro Hitler e il 9 maggio anche noi festeggiamo il giorno della vittoria contro i nazisti come fa Mosca”.
Il monumento alla Shoah di Drobitsky Yar si trova all’ultimo check point nell’area sud-orientale di Kharkiv: il fronte oggi, dicono i militari di guardia, dista 3,5 chilometri. E poi indicano i moncherini anneriti delle 7 braccia della Menorah, gigantesco candelabro in ferro che ricorda uno dei tanti massacri delle comunità ebraiche ucraine: qui nel 1941 furono trucidate circa 20mila persone. Il capo posto è Vlatislav, 21 anni, arruolato da due, e che già un hanno fa si è trovato a combattere contro truppe russe in uno dei tanti episodio bellici della guerra del Donbass che si trascina dal 2014. “Già il 22 ero insieme al mio reparto alla frontiera con la Russia per osservare i loro spostamenti: faccio parte di un’unità di intelligence per analizzare gli obiettivi da colpire. Sapevamo che sarebbero arrivati. Mio zio e mio cugini sono russi, ma per fortuna non ho nessuno che conosco contro il quale sto combattendo. La loro arma migliore sono i droni coi quali scelgono gli obiettivi: volano troppo alti per poterli abbattere. Scelgono sia obiettivi militari che civili. Ma i soldati che uccidiamo o catturiamo sono quasi sempre ragazzi molto giovani, dei novizi”, dice sorridendo con la faccia da ragazzino incorniciata da una folta barba: “Il mio nome di battaglia è Boroda, barbuto.