Corriere della Sera, 30 marzo 2022
Intervista a Gian Piero Ventura
«A Palermo, dopo la sconfitta con la Macedonia del Nord, il presidente Gravina era seduto accanto a Mancini. Io a San Siro ero solo, l’unico colpevole. Non l’ho mai trovato giusto».
Fa fatica Gian Piero Ventura a parlare della sua Nazionale. È una ferita che lo ha segnato, «un errore che ho pagato». Risponde da Bari, quella che è diventata la sua casa da quando nel 2016 ha sposato Luciana, con la solita voce squillante e forte, che si incrina un po’ quando parla dell’Italia. Un dispiacere che s’è attenuato, eppure fatica a togliersi di dosso. Ma il calcio è il suo fuoco: a novembre ha salutato «solo la panchina», precisa.
Fermo dall’estate 2020, 74 anni compiuti a gennaio, Chievo e Salernitana le ultime due esperienze, Ventura è pronto a ripartire: «Non voglio più allenare, ma il pallone è la mia vita. Sarei felice di portare la mia esperienza in qualche società». Ha lanciato tanti talenti, da Darmian a Immobile, ci vuole riprovare ma in una veste diversa: «Era giusto che dedicassi un po’ di tempo alla mia famiglia, e l’ho fatto. Si dovesse creare un’opportunità sarei pronto, competitivo e determinato». Ha metabolizzato l’incubo Svezia, la sua Italia «è il passato».
Roberto Mancini, che come lei non si è qualificato per i Mondiali, ha deciso di restare alla guida della Nazionale. Ventura, Roberto fa bene a proseguire?
«Penso di sì, ci sono tutti i presupposti per riprendere il discorso interrotto a Palermo».
Vi siete sentiti dopo la partita con la Macedonia?
«No, non stavolta. Gli ho mandato un messaggio per gli Europei, gli ho fatto i complimenti».
Come si passa da un Europeo vinto alla mancata qualificazione al Mondiale?
«C’erano stati dei segnali, negli ultimi mesi. Si faceva troppa fatica a far gol. Durante l’Europeo la squadra era coraggiosa, bella in alcune giocate, leggera. Contro la Macedonia quelle sensazioni sono diventate fatica, affanno, timore. Hanno perso certezze».
Le è sembrato di rivivere Italia-Svezia?
«Per certi versi sì. Ma il contesto era completamente diverso. Prima dei playoff la mia Nazionale era già contestata. Eppure io sono uscito con Svezia e Spagna, ma non mi piace fare comparazioni. Se poi penso a certe immagini: per esempio Gravina a Palermo era vicino a Mancini, al suo allenatore, gli ha dato sostegno».
Cosa le rimane di quella notte?
«Ho sorriso in questi giorni leggendo alcune dichiarazioni, qualche giornale: “Nel calcio può succedere”, “Caccia ai colpevoli”. Nel 2017 ce ne era solo uno. Trovai scorretto dovermi prendere tutte le colpe. Ma ormai l’ho superato, spero che l’Italia torni presto tra le migliori squadre del mondo».
Il calcio italiano sta peggiorando nella sua qualità?
«Si è fermato un po’ sul piano delle idee, è meno divertente. C’è stato l’exploit di Gasperini con l’Atalanta, poi qualche anno fa il Napoli di Sarri. Per il resto non mi sembra che sia un momento esaltante».
Dove è il problema più urgente secondo lei?
«Abbiamo difficoltà a segnare e si criticano le punte, ma tra le prime sei squadre di serie A non c’è nessun attaccante italiano. Ci siamo giocati la qualificazione al Mondiale con giocatori naturalizzati, segno che qualcosa non va, è evidente. Ma ne discutiamo solo dopo un fallimento, tra una settimana saremo di nuovo concentrati su Juventus-Inter. Servono delle riforme concrete, non basta parlarne, e un rapporto diverso tra i club e la Nazionale: non può essere vista come un fastidio, dovrebbe essere il riferimento di tutto il sistema. E poi ci sono troppe partite, spesso i giocatori tornano stanchi o infortunati. È come un gatto che si morde la coda».
Quale può essere la soluzione?
«Bisogna dare più importanza ai settori giovanili, deve prevalere la tecnica sulla tattica. Prima alle scuole calcio i ragazzini passavano ore col pallone tra i piedi, la tattica era l’ultimo dei problemi. Se non hai la tecnica come fai a giocare?».
E poi?
«I giovani devono avere tempo e spazio per crescere. Tra gli attaccanti della Nazionale molti non hanno mai giocato in Champions League. L’esperienza internazionale serve, ti dà consapevolezza. Col Decreto crescita sono arrivati tanti giocatori dall’estero, alcuni neanche così bravi. Mettere un freno ai giocatori stranieri nel nostro calcio, e così liberare alcuni ragazzi, può avere senso».
Gli allenatori che ruolo hanno in questa transizione?
«Sono spesso in difficoltà, costretti ad ottenere tutto e subito perché senza risultati vanno a casa. Il binomio Ventura-Cairo al Torino ha funzionato perché io non avevo l’ambizione di arrivare chissà dove. La mia libidine era lanciare talenti: Zappacosta, Cerci, Immobile, solo per fare qualche esempio. La società era in simbiosi con me. Così ha senso, ma di solito in serie A un allenatore sa che rischia il posto senza risultati, quindi non perde tempo a far crescere i giovani».
Le piace la Var?
«Utile come concetto generale, ma in alcuni casi è uno strumento strano. Per le valutazioni di episodi evidenti a volte impiegano cinque minuti, mi lascia perplesso anche segnalare un fuorigioco di un millimetro. Ma ha eliminato tante situazioni complicate, portando più equilibrio. Una volta certe partite erano impossibili da giocare, io ho perso dei derby in maniera bizzarra».
Chi vince lo scudetto?
«Credo sia una sfida a tre. All’Inter manca un vice Brozovic, ma per il resto è la squadra con la rosa migliore. A Torino contro la Juventus è decisiva: se vince può avere un’iniezione di fiducia importante, se perde diventa tutto più difficile. Il Napoli ha un organico di livello: Osimhen è devastante, Anguissa è stata una felice intuizione, Koulibaly è il miglior centrale d’Europa. Ma si è fermata in due scontri diretti. Al Milan invece c’è un connubio totale tra società e squadra: come giocatori sono più giovani, magari si pecca di inesperienza, ma è un gruppo vero. Per questo, dovendo scegliere, dico i rossoneri».
Quando la rivedremo in pista?
«Spero presto. Non cerco un contratto, non mi interessa, io ho bisogno di adrenalina, credo di poter essere ancora utile». Ne siamo convinti.