Corriere della Sera, 30 marzo 2022
Biografia di Enrico Lucci raccontata da lui stesso
«Io sono superbuono con i buoni, supercattivo con i cattivi, superdemocratico con i democratici e stalinista con i fascisti: questo è il quadro che mi raffigura alla perfezione».
Anche fascista con i comunisti?
«Fascista è il termine peggiore che chiunque mi possa rivolgere, racchiude insieme un’idea criminale e allo stesso tempo stupida. Mi è rimasta sempre in mente una frase che dissero i fratelli Rosselli quando erano in esilio: il fascismo è tutto ciò che è contrario all’intelligenza».
Enrico Lucci non si definisce un comunista nostalgico e neppure folkloristico, piuttosto un comunista degli anni 3000, ipercontemporaneo. Con la sua cifra urticante (perché mette a nudo le incoerenze altrui) ha saputo raccontare i personaggi pubblici e il vuoto del pensiero dominante in tutte le sue declinazioni perché spesso è lì che si annida il paradosso, il cortocircuito; e l’estro di Lucci sta nel cogliere sempre con uno sguardo laterale e ironico le contraddizioni della realtà che ci circonda, la bizzarria del pensiero (poco pensato) corrente. Il tutto impastato di veracissima romanità, un misto di disincanto e cinismo, il gergo dialettale (non parla mai in «italiano») ad aggiungere (anche in quest’intervista) sarcasmo.
La domanda sempre nella carne viva dell’intervistato, senza sconti: la faccia tosta in qualunque situazione da dove le viene?
«È l’insegnamento dell’Istituto di studi comunisti Palmiro Togliatti, la scuola delle Frattocchie, che è stata la scuola centrale del Partito comunista. Lì ho imparato lo sviluppo della cosiddetta coscienza critica, che io ho rimodulato in incoscienza critica».
Lei è uomo da marciapiede...
«Anche uomo del tombino, della fogna».
Sempre in strada a inseguire politici e personaggi pubblici. Ha fatto 20 anni da Iena.
«Sono stati anni meravigliosi, quelli della crescita e della formazione, i miei primi anni alla ribalta dopo la mia esperienza, ancora acerbo, a Rai3. Ora sono a Striscia la notizia che rappresenta l’ascesa in Paradiso».
Perché ha bussato alla porta di San Antonio Ricci?
«Striscia è sempre stata un ambiente che mi interessava, a me simile, mi sono ritrovato con persone con cui ho una affinità ideologica televisiva; il cervello di Ricci mi sembrava un buon mare in cui poter navigare. L’ho chiamato e gli ho chiesto: te serve uno? In due ore si è sviluppata una spirale di entusiasmo ed eccomi qua».
A chi deve dire grazie se è arrivato fin quassù?
«A Claudio Ferretti (giornalista, conduttore radiofonico e televisivo scomparso due anni fa). Mi ha preso da una televisione di Genzano, che non si vedeva manco fuori dal palazzo. Mi madre per guardarmi doveva dirigere l’antenna da Ariccia verso Genzano per intercettare il segnale. A Ferretti devo tutta la mia esistenza».
Come nacque il vostro incontro?
«Io facevo parte degli universitari della Pantera, chiamò il Tg3 che voleva uno studente per raccontare il fenomeno e l’assemblea mandò me. A intervistarmi c’era lui, Claudio Ferretti. Io stavo ad Ariccia e le televisioni locali in seguito alla legge Mammì erano obbligate a mettere in piedi un telegiornale, c’era ‘sta tv de Genzano che gli serviva uno. Non un giornalista. Uno. Chiunque. E io già scrivevo in un giornalino che facevano nella sezione Lenin di Ariccia e il direttore, che era lo stesso della tv, mi chiese di propormi come giornalista. Io non avevo niente da fare, non sapevo che fare della mia vita e ce so’ annato. Ho iniziato a fare un tg super scrauso e mi sono preso sul serio, ho intravisto una strada. A quel punto mi sono chiesto: chi mi può insegnare questo mestiere? Chi è la persona più importante incontrata nella mia vita?».
Claudio Ferretti...
«L’ho chiamato al fisso in redazione, che i cellulari non c’erano: si ricorda di me? Ovviamente no. Io che stavo nella tv che parlava di galline ho chiesto a lui che stava in Rai – la Rai! – come si costruiva un servizio. Mi ricevette a Roma, in via Teulada. Mi presentai con un servizio che avevo preparato, l’unico che avevo fatto per la verità. Prese la cassetta – quelle vecchie, enormi – la mise nel videoregistratore e si ruppe. Io mi volevo suicidare. Ma lui tranquillo, l’aggiustiamo, e si è messo lì a ripararla con cacciavite e scotch. Poi pazientemente mi ha spiegato come si faceva un servizio tv. Quando ci siamo salutati non sapeva che aveva firmato la sua condanna, gli ho rotto le scatole per tre anni. Quando lessi che era diventato caporedattore allo sport del Tg3, pensai di nuovo, famme vedè se glie serve quarcuno. Era agosto, il mese migliore per trovare lavoro perché sono tutti al mare. Lui doveva mettere su un nuovo programma, un po’ dovevo piacergli e mi fece un contratto di 9 mesi. Ho iniziato con È quasi gol con lui e Ciotti, poi Anni azzurri e Telesogni. Nel 1997 ero alle Iene: dopo il primo servizio ne sono arrivati altri mille».
La definiscono, con termine più volgare e diretto, rompiscatole...
«Io detesto l’immagine del contestatore, del giustizialista, del provocatore; io prima di fare una domanda penso bene a quello che devo dire. La domanda deve andare al centro di quello che a me sembra un problema, un tema da sviscerare. Non sopporto l’aggressività per se stessa, la provocazione per provocare, ci deve essere sempre un motivo che io ritengo giusto per rompere i c... a qualcuno».
Lei è uno che colpisce al cuore le contraddizioni...
«Detesto chi dice: io non giudico nessuno. Non è vero, tutti giudicano tutti, io lo dico espressamente: giudico qualunque cosa. E sulla base delle mie convinzioni – che ovviamente sono le mie – faccio la domanda opportuna. Mi focalizzo su quello che le persone rappresentano o hanno fatto. Io giudico le azioni».
I social, la vita in mano all’algoritmo: non sembra roba per lei...
«Non sono un luddista, sono un progressista, tutto ciò che migliora la vita dell’essere umano va straordinariamente bene, i social hanno elementi positivi, mettono in contatto le persone. Noi ragioniamo con le nostre vite ricche, intessute di conoscenze e di rapporti, ma se vedo me 40 anni fa ad Ariccia mi sarei fionnato su qualunque social pur di conoscere un po’ di f... Il dramma è che sono diventati la fogna di ogni cattiveria e rancore, sono esibizione del nulla. Poi, certo, dipende sempre da come li usi».
Per questo ha un vecchio telefonino.
«I cellulari li rinnovo solo quando non funzionano più, adesso da due anni ho pure WhatsApp ma solo perché mi ero rotto le scatole di tutti quelli che mi chiedevano perché non ce l’avevo. Sembra che vuoi fare il cavernicolo, l’alternativo, ma spendevo più tempo a spiegare e alla fine mi sono rassegnato».
Il servizio di cui va più fiero?
«Quando feci rinnegare Mussolini a Fini, allora potente capo della destra italiana. Era il 2002 e lui un anno prima aveva detto che il più grande statista del 900 era il Duce. All’epoca stava per diventare ministro degli Esteri e così mi sono chiesto: vediamo che dice ora se gli rifaccio la stessa domanda. Pensa come reagirebbero le cancellerie occidentali. Lo ridirebbe? Lui sbianca. Gli sono stato talmente addosso che alla fine è caduto: No, non lo ridirei più. Per uno come me è stata una medaglia».
Si è definito il romanziere della Grande Scemenza Contemporanea...
«Oggi sono tutti contenti che non esiste più l’ideologia, ma poi si lamentano se l’ambizione più grande di un adolescente è comprarsi le Nike. Non ho niente contro le Nike, ma se quello è il fine della vita tua... La sedicente democrazia liberale millanta prosperità per tutti, ma poi questa prosperità la vedono sempre le solite classi borghesi, mentre resta un’ampia fascia di popolazione che si deve arrabattare. L’America si erge a guida del mondo ma i marciapiedi di Los Angeles sono pieni di neri ubriachi e obesi. E gli americani rompono pure le scatole agli altri volendo insegnare al mondo come si vive. Robe da pazzi».
Lei ha attraversato la politica italiana, dalla Prima Repubblica a oggi.
«Ho iniziato intervistando Gava, Andreotti, un mondo ormai trapassato. Io odio il qualunquismo, banalizzare le tesi, ma se analizzi attentamente la situazione ti accorgi che solo il 4% delle persone che stanno in politica ci credono davvero, vogliono migliorare il mondo. La sedicente democrazia liberale ha davvero raggiunto il massimo dell’inconsistenza, la politica è diventata una guerra tra bande. Posso fare i nomi – ma non li faccio – di cinque persone che hanno ancora una sana motivazione ideale, gli altri sono scappati di casa che cercano solo un palcoscenico».
La sinistra?
«Totalmente appiattita: è diventata il partito dei liberal americani e del Papa».
Dunque comunista anche senza Muro?
«Sì, ancora di più. Non faccio il nostalgico, non è un cliché da intellettuali. Esser comunisti significa avere coscienza critica, analizzare le cose e capire da che parte stare. Non sono aggrappato a un’idea fissa del mondo, il mondo cambia continuamente, devi capire in che modo lo guardi. E un comunista lo vede con gli occhi della ragione».
Berlusconi lo sa chi ha assunto?
«Mediaset è piena di comunisti, è risaputo, non è una novità».
Nessuno scrupolo a lavorare con il «nemico»?
«No. Si lavora dove c’è il lavoro, la libertà la trovi dappertutto, la trovi in un’azienda privata oppure in un’azienda pubblica ma non te la regala nessuno. La libertà non è da nessuna parte ed è dappertutto, la libertà è quello che tu di volta in volta osi».