La Stampa, 30 marzo 2022
Sul saggio "La Cina è già qui" di Giada Messetti
Continuiamo a guardare alla Cina consumando luoghi comuni e antiquate categorie occidentali. Per questo, pur ammettendo la potenza del Dragone, non riusciamo a intercettarne la portata globale, storica, industriale e persino culturale. La Cina resta “l’Altro”, anche “l’Altrove”. E non ci accorgiamo che è già qui, nel nostro cortile, tutt’attorno. Conoscere questo gigante non solo è utile, è ormai fondamentale per traguardare il presente, per trovare un posto al fianco di quella che già adesso, in moltissimi settori (non solo per quantità ma anche per qualità), è la prima potenza mondiale.
Serve un ponte verso la Cina, ma per trovarlo bisogna sbarazzarsi di una conoscenza prêt-à-porter, confezionata tra un all you can eat e un cappotto a basso costo, e impugnare una bussola seria e soprattutto sincera. La Cina è già qui di Giada Messetti (Mondadori) ha questa pretesa. Accompagna il lettore nel Dragone di oggi, senza dimenticare la valenza determinante di un passato che non abbandona i cinesi nonostante le loro città, in meno di trent’anni, abbiano cambiato radicalmente aspetto.
Già, perché Shanghai, 26 milioni di abitanti, è l’avamposto nel futuro della Cina e forse del mondo intero: eppure nei suoi ristoranti si servono gli stessi ravioli di 2500 anni fa, eppure al mercato della frutta si seguono ancora riti medievali di contrattazione. Sotto i più ambiziosi grattacieli della Terra. Perché di certo i cinesi non amano le rovine, le vestigia antiche: i turisti occidentali soffrono quando non scorgono centri storici. Non capiscono che per i cinesi la memoria e la tradizione non si aggrappano a una dimora di legno: la storia si ripara nei gesti, al limite nei decori floreali di un giardino curato.
È il loro timbro culturale, lo stesso che li spinge a procedere «cinesizzando tutto ciò che incontrano», un fenomeno che chiamano sh?nzhài: riescono a dotare di caratteristiche cinesi la realtà. Lo si vede, oggi, soprattutto nel web: i cinesi hanno una loro galassia internet, i loro colossi del web, le loro piattaforme e le loro App totalizzanti. In questo modo marciano nel domani senza rinunciare a pratiche che sembrano innate nelle loro abitudini: come le poesie millenarie scritte con l’acqua sul selciato davanti al Tempio del Cielo, che durano pochi istanti, dipinte dalla «danza involontaria» di indomiti anziani che per ore allenano il corpo e la mente, ogni giorno.
La scrittura, la musica, gli scacchi e la pittura: sono le quattro arti tradizionali cinesi. Quella scrittura che ci fa sorridere pensando a qualcosa di pittoresco nasconde tutta la storia dell’Impero. Il segno scritto, lo wén, è il collante identitario dei cinesi e si sviluppa attraverso 85.568 caratteri: è «la connessione con il passato» e al contempo un forte rischio di isolamento nel presente. Il problema si era presentato con la tastiera dei computer: la Cina non ha rinunciato agli ideogrammi e con il metodo w?b? è riuscita a scomporre ogni tasto in cinque parti, consentendo i segni tradizionali.
Il partito c’è e Messetti lo fa capire nei dettagli. Il patto tra comunismo e popolo ha generalmente retto nel nome del costante miglioramento delle condizioni di vita. Ma, dopo decenni di esaltante galoppata, ora che il rallentamento strutturale dell’economia è inevitabile, si affaccia anche sulla Cina il rischio del caos, del luàn. Xi Jinping, che pure «è il più forte dei leader cinesi (dopo Mao)», l’ha detto: bisogna arginare quel rischio. E la memoria è una delle armi che ha indicato.
Un suo alleato è Confucio, la cui lezione non è dispersa. I precetti dell’apprendimento, della rettitudine, del rispetto e della gerarchia (dalla famiglia allo Stato) valgono sempre di più. Certo, il rocambolesco cambio di paradigma economico ha sconvolto alla radice gli equilibri sociali, passando dalle «quattro generazioni sotto lo stesso tetto» al trauma del figlio unico, ai nidi vuoti, agli anziani soli. Ma marxismo e confucianesimo si sono intrecciati e Xi ha astutamente costruito su questi due pilastri il suo «socialismo della nuova era».
Il sistema funziona, lo si è visto con il Covid, tra numeri enormi, quando la macchina da guerra per il contenimento del virus ha vinto. Una colossale opera di confucianesimo applicata al marxismo e allo statalismo. Lo Stato-partito ha ancora la forza totale di mobilitare il popolo contro i «cigni neri» che incombono sul cammino. Ma il Covid è stato anche una spia dell’indole cinese sulla lunga distanza: perché il sistema si sclerotizza (lo dimostrano i 33.863 turisti chiusi dentro la Disneyland cinese per la presenza di un solo positivo) e la gente alla fine mostra insofferenza sui lockdown prolungati.
Del resto, le ombre ci sono. Il sistema dei rapporti personali punta storicamente all’armonia collettiva, ma è sconvolto endemicamente dalla corruzione, dalla riservatezza e dalla vergogna (che vale quanto la colpa). Queste sindromi si manifestano nei rapporti di vicinato, nei quiz televisivi, nella politica e nel business, rendendo l’universo cinese realmente distante e per questo difficilmente comprensibile (senza uno sforzo) dal costume occidentale.
Per di più, in politica pesa il piglio del «non cedere mai all’esterno»: la Cina non vuol più rivivere quella stagione nera «dell’umiliazione internazionale» che visse nell’ultimo secolo prima della Rivoluzione rossa. Schiacciata a lungo dagli europei, impiegò troppo a riemergere sul piano internazionale: la prima iniziativa diplomatica verso l’Occidente fu solo del 1867. Ma fu Mao a coagulare un sentimento diffuso: basta subire il bullismo dell’Occidente. È lo stesso sentimento vissuto due secoli prima dagli Stati Uniti e non a caso si tratta delle due sole realtà postcoloniali diventate prima nuove grandi potenze e poi potenze egemoniche.
Qui, però, fa notare Messetti, la questione si complica. L’Occidente non smette di voler far coincidere la realtà con la sua volontà. I cinesi, invece, sanno che il cambiamento, il biàn, è l’unica costante della storia. È una sostanziale differenza di visione, ma anche di tattica politica, paragonabile alle confliggenti strategie degli scacchi: «In Occidente l’obiettivo è eliminare, in Cina è dominare». I cinesi sanno che la tendenza cambia e va assecondata, «scommettendo la faccia» sul tempo. Deng Xiaoping fu un diabolico preveggente: «Nascondi la forza e attendi il tuo tempo», diceva. Il tempo, ora, è arrivato.
La Cina ha impiegato 15 anni per entrare nel Wto, l’Occidente l’ha ammessa nel 2001, pensando di poterne regolare e condizionare crescita e riforme. La crisi del 2008 e la forza di Xi hanno fatto il resto. E tutto è cambiato: «Il Dragone ha vinto la globalizzazione» come una furia e oggi è «causa» di un terzo della crescita mondiale. Non è più la sporca fabbrica del mondo, ma un esportatore fenomenale di qualità. Ha una potenza economica e di conoscenza che nessuno aveva previsto in queste dimensioni, per altro in assenza dell’agognata democratizzazione. L’Occidente, in difficoltà, anziché dialogare ha così cominciato a puntare il dito su ogni zona d’ombra e ha lasciato che la Cina stringesse rapporti con i vicini, e con la Russia, creando una sua reale zona d’influenza. Consentendo che affrontasse da sola e con il suo approccio questioni delicatissime come la cybersecurity o la privacy globali.
Xi decise che il tempo dell’Occidente che impartisce lezioni era finito, persino ha benedetto un libro bianco sulle colpe del sistema occidentale. Alla devastante crescita si è affiancato anche un contrattacco culturale. Noi continuiamo a guardare alle bacchette sul tavolo come un goffo orpello folcloristico. Per i cinesi non sono solo un simbolo di armonia: un fascio di bacchette, di kuàizi, è infrangibile, pensano, come dovrebbe essere un popolo. Giudicare oggi la Cina con gli occhi del secolo scorso è quanto mai sterile. «La Cina è già qui» e, auspica Messetti, va incontrata. Al più presto. Conoscendola.