La Stampa, 30 marzo 2022
In Russia spie contro generali
«Hasaviurt»: la parola viene sussurrata nei canali Telegram considerati un megafono dei falchi del Cremlino, evocata nei talk show propagandistici, e Ramzan Kadyrov si ferma a un passo dal pronunciarla quando invoca una battaglia per Kiev «fino alla fine». Hasaviurt è il nome del villaggio daghestano dove, nell’estate del 1996, il generale russo Aleksandr Lebed’ firmò con i comandanti degli indipendentisti ceceni una tregua che avrebbe dovuto aprire la strada alla secessione della Cecenia dalla Federazione Russa. Un processo interrotto dalle bombe russe lanciate su Grozny nel 1999 dal neopremier Vladimir Putin, ma rimasto nel vocabolario politico moscovita come sinonimo di “tradimento”, almeno per i falchi, e di ammissione della sconfitta in una guerra ingiusta per gli ormai quasi estinti liberali.
I segni del tradimento sarebbero la dichiarazione del negoziatore russo Vladimir Medinsky sulle condizioni di pace proposte dagli ucraini, e nell’annunciato ritiro delle truppe russe da Kiev promesso da Sergey Shoigu, che sostiene che l’obiettivo della guerra fin dall’inizio fosse “soltanto” il Donbass. È curioso che a ridimensionare gli obiettivi russi in Ucraina, almeno in pubblico, sia proprio quel ministro della Difesa la cui sparizione di dieci giorni – attribuita, secondo insistenti voci, a un attacco di cuore successivo a una strigliata al Cremlino – abbia preoccupato perfino il Pentagono. Se i falchi dell’esercito si trasformano davvero in colombe, il motivo sarebbe l’impossibilità fisica di proseguire la guerra. Un bagno di realtà offerto dall’esercito ucraino, dopo che gli ufficiali russi in partenza per il fronte si erano messi in valigia le alte uniformi da sfoggiare il 9 maggio alla parata a Kiev, come ha rivelato Zelensky. Il 9 maggio è una data che per Putin ha una «importanza religiosa», dice il politologo di opposizione Abbas Galyamov: è l’anniversario della vittoria su Hitler, ed entro quel giorno il presidente russo deve presentare al suo Paese una vittoria, una vittoria qualunque, se non a Kiev, a Mariupol, o almeno a Donetsk.
Resta ovviamente senza risposta l’interrogativo su chi, e perché, abbia promesso a Putin una vittoria impossibile. Esperti di servizi segreti russi come Andrey Soldatov indicano da settimane l’esistenza di un conflitto tra militari e intelligence, con l’ex Kgb – cioè la polizia politica Fsb e lo spionaggio estero Svr – tagliati fuori dai preparativi per la guerra. Una teoria in parte contraddetta dall’arresto (peraltro smentito) di Sergey Bededa e Anatoly Bolukh, i generali dell’Fsb responsabili dell’Ucraina, possibili capri espiatori del fallimento sul campo. Ma altre fonti, come la talpa “Wind of Change” che comunica da mesi con il dissidente Vladimir Osechkin, insistono che i piani di guerra siano stati covati in segreto altrove, da qualcuno che prometteva una rapida vittoria. Questo potrebbe spiegare anche l’evidente imbarazzo e paura del capo dell’Svr Sergey Naryshkin, interrogato da Putin davanti alle telecamere su cosa fare del Donbass, così come la rivelazione di Zelensky che a informare degli attentati contro di lui siano stati ufficiali dei servizi russi.
Pur essendo un uomo dell’ex Kgb, il presidente russo parrebbe essersi allontanato dagli ex compagni. L’economista Anders Aslund, che ha lavorato con il governo russo negli anni ’90, sostiene che a scontrarsi a Mosca sono, da un lato, i servizi, Fsb e Svr, e dall’altro la Guardia nazionale, i ceceni di Kadyrov e l’Fso, il servizio segreto personale di Putin, le sue guardie del corpo che controllano tutto e tutti. Sarebbero loro la “corte putiniana”, i pretoriani ai quali il presidente si è affidato sempre di più, fino a promuovere gli uomini della sua scorta a governare intere regioni o corpi d’armata. Privilegiare la fedeltà rispetto alle competenze, una logica che ha coinvolto anche le forze armate: nonostante la sua sontuosa uniforme da generale, Shoigu non è un militare, viene dalla protezione civile, e la sua ascesa nella classifica delle simpatie di Putin negli ultimi anni è probabilmente dovuta più all’essere uno “yes-man”, mal visto dai generali di carriera.
Voci, fughe di notizie, depistaggi dentro altri depistaggi, in fiumi di disinformazione funzionale a scaricare le colpe, o a seminare dissidi in campo avverso: d’altra parte, solo la vittoria ha tanti padri, la nuova Hasaviurt, il giorno che si compisse, potrebbe trovarsi subito orfana. Quello che è sicuro è che a Mosca è in atto uno scontro non tra buoni e cattivi, ma soltanto tra pragmatici dotati di maggior realismo rispetto ai cortigiani per i quali accontentare il dittatore è più importante che sacrificare altre decine di migliaia di soldati, e affamare decine di milioni di russi. Dover confidare nella vittoria dei falchi dell’ex Kgb rispetto ai “cortigiani” offre già la misura del compromesso possibile, e della sua durata: «Ogni volta che Putin ha annunciato il ritiro dalla Siria, il contingente russo non ha fatto che aumentare», tranquillizza il suo pubblico spaventato dalla “nuova Hasaviurt” il propagandista televisivo Vladimir Solovyov.