Non ha mai amato la visibilità, anche ai tempi del De Mauro ministro dell’Istruzione. Della sicilianità porta traccia nel lieve accento rotondo e nel calore umano avvolgente, innervato dall’intelligenza dei sentimenti. Nel ricordo del marito che molto le manca, non cede mai allo sconforto. «Tullio è ancora molto vivo nella memoria di molti. Da quando è mancato gli sono state dedicate scuole, biblioteche, centri di formazione degli adulti. Sapeva guardare oltre, in anticipo rispetto al suo tempo. E ora viene ripagato da una corrente inesauribile d’affetto».
Quando vi siete conosciuti?
«Nel 1967 all’università di Palermo.
Era il mio giovane professore di filologia germanica, ancora non esisteva la cattedra di linguistica generale. Sarebbe nata di lì a poco e Tullio ne fu il primo titolare. Feci con lui anche quest’altro esame.
Scherzando dicevamo che lui era stato il primo professore di linguistica generale e io la prima studentessa».
Fu una delle prime rivoluzioni di De Mauro: introdusse la linguistica in Italia.
«Sì, non senza resistenze in ambito accademico. Il campo era dominato dalla glottologia e la linguistica veniva vista come una disciplina con radici meno profonde. Furono fondamentali la traduzione e il commento del Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure. L’idea era stata di Vito Laterza, ma Tullio non ne era convinto: “A che serve?”, diceva, “l’avranno letto tutti nell’edizione in lingua francese”. In realtà ne erano state vendute in Italia solo poche copie. E oggi il commento di De Mauro viene tradotto in tutto il mondo, insieme al corpus saussuriano: come se ne facesse parte integrante».
Nel 1963 era già uscita la sua “Storia linguistica dell’Italia unita”: altra novità spiazzante.
«Aveva solo 31 anni e seppe rompere con la tradizione delle storie linguistiche italiane che erano storie della lingua. Per la prima volta, attraverso la lingua, scrive una storia degli italiani, che è anche storia economica, politica, sociale. Anche questo inizialmente non fu visto con favore».
Era la sua cifra: sapeva guardare oltre.
«Tullio inventava delle cose che ancora non c’erano. Dalla linguistica al mondo digitale, dal vocabolario di base al lessico dell’italiano parlato, dalle indagini dell’Istat al mondo della scuola: in ogni campo non ha mai smesso di cercare nuove strade, prefigurando ciò che poi sarebbe arrivato. Vedeva da lontano l’onda e sapeva cavalcarla senza farsene travolgere. E c’era sempre un filo tra queste sue invenzioni e la crescita civile degli italiani».
Gramsci diceva che gli intellettuali devono capire i problemi ma devono anche sentirli. De Mauro è stato uno dei pochi capaci di piangere in pubblico.
«Non c’era un muro tra la sua vita emotiva e il suo impegno civile.
Quella del recupero scolastico dei bambini nei Quartieri Spagnoli a Napoli o nelle periferie palermitane era una questione che lo toccava nelle corde più intime. Si doveva anche difendere da questa sua emotività, ponendo dei paletti.
Negli ultimi tempi non poteva più ascoltare la canzone napoletana perché gli faceva male».
Da dove arrivava questo lato malinconico?
«Tullio non ha avuto una vita facile. La morte nell’89 della moglie Annamaria Cassese è stato un trauma profondissimo, per lui e per i figli Giovanni e Sabina. E anche l’infanzia era stata segnata da alcuni lutti, come la perdita a 11 anni del fratello maggiore Franco, pilota caduto in guerra. La sua stessa nascita era stata preceduta dalla morte di un fratellino che aveva lasciato nella madre una ferita insanabile. La sua era una famiglia borghese colta, vivace intellettualmente ma anche attraversata da instabilità economica. Il padre farmacista, uomo inquieto, cambiava di frequente lavoro. E Tullio da piccolo ne soffriva».
In famiglia nacque il suo amore per le parole.
«Era l’ultimo di cinque fratelli, arrivato a parecchia distanza dagli altri. Questo significò crescere in un mondo adulto, maturo sul piano linguistico. Scopriva la varietà dei significati a seconda dei contesti. E restava affascinato dalle citazioni dantesche della madre o dalle gare poetiche dei fratelli, che diventarono il basamento della sua formazione».
Nei suoi libri autobiografici ha raccontato delle sue difficoltà a scuola.
«Sì, Tullio fu anche bocciato. Io credo che anche dalla sua esperienza scolastica sia scaturita la straordinaria sensibilità per le difficoltà dei ragazzi».
La scuola è stato uno dei grandi temi della sua vita, qualità rara tra i grandi accademici. Ma la sua esperienza da ministro della Pubblica istruzione lo fece anche soffrire.
«Non riuscì a fare ciò che avrebbe voluto, anche perché il suo ministero durò poco più d’un anno. Ricordo il suo travaglio prima di accettare l’incarico. Ma non se n’è mai pentito. Ebbe l’opportunità di conoscere dall’interno l’apparato, traendone un giudizio positivo: andava a bussare porta a porta, per incontrare persone che in tanti anni non avevano mai visto un ministro. E poté fare la sua battaglia per restituire dignità agli insegnanti, anche se non gli riuscì di aumentarne gli stipendi».
Una vita dedicata alla lingua e all’uso delle parole. Eppure era capace di grandi silenzi.
«Tullio teorizzava il silenzio come momento di elaborazione interiore. Magari restava a lungo assorto davanti alla finestra oppure camminava su e giù per la casa: capivo che stava inseguendo i suoi pensieri».
Non parlava volentieri del fratello Mauro, il giornalista
dell’“Ora” ucciso dalla mafia.
«Non ne parlava perché era una ferita mai rimarginata. Bastava sfiorarla che tornava a sanguinare.
Un pomeriggio, in questo soggiorno, non riuscì a reggere le domande di un giornalista svizzero. Si fece buio fuori, ma non volle accendere la luce per non mostrarsi scosso».
Cosa lo faceva soffrire di più?
«Ha cercato di inseguire tutte le piste possibili, ma non c’è mai stata una spiegazione definitiva. Un fratello scomparso e mai ritrovato: un dolore che non si può dire. E infatti per dirlo ricorse ai versi di Pier Paolo Pasolini ne La meglio gioventù: “Lasciato nella memoria a logorarti, io mi ricordo di te, senza pena e senza speranza. Si fa sempre più silenzioso e alto il mare degli anni; e i tuoi prati pieni di tempo ormai arso sono sull’orlo di quel mare: perduti e non pianti”. Sono queste le parole che Tullio, tre anni prima di andarsene, ha voluto dedicare al fratello perduto e mai pianto».
Ricorreva alle parole degli altri anche per parlare d’amore?
«Sì. Per dedicarmi un saggio di
linguistica ricorse alla canzone ‘ O paese d’‘o sole: “Per Silvana …. addò tutte ‘e pparole, /so’ ddoce so’ ammare,/ so’ ssempre parole d’ammore”. Tullio non era capace di dirlo con le sue parole».
Dopo tanti anni vi eravate rincontrati per lavoro, vedovi entrambi.
«Insieme raccogliemmo tutti i nostri cocci e nel 1998 decidemmo di sposarci: anche questo era il segno che entrambi i nostri matrimoni erano stati felici. Man mano che il Paese cambiava, dalle grandi battaglie democratiche all’individualismo crescente, abbiamo sempre cercato di restare fedeli a noi stessi. Poi la sera ci guardavamo negli occhi: meno male che ci siamo l’un per l’altro. Ci sembrava impossibile separarci».
Che cosa continuava a stupirla?
«La sua capacità di curvare ogni cosa in positivo. Di porte sbattute in faccia ne ha ricevute tante, ma mai coglievo in lui uno guardo malevolo o un giudizio tagliente. Io non riuscivo a capirlo fino in fondo. Ma come fai?, gli chiedevo. Sapeva trovare sempre uno spiraglio di luce».