la Repubblica, 30 marzo 2022
Il mito di Pinocchio
Da qualche tempo è tornato di moda prendersela con i personaggi letterari. Dico “tornato” perché in passato lo aveva già fatto almeno Henry de Montherlant, con il suo Contro Don Chisciotte, mentre di recente un’amica classicista, Monica Centanni, ha mandato in libreria il suo Contro Ulisse : e adesso Aurelio Picca se la prende con Pinocchio. Sto solo aspettando che qualcuno scriva Contro il Doctor Faustus (ma dubito che accada, perché con Thomas Mann c’è il rischio di finire al tappeto). I rimproveri che Picca muove a Pinocchiosono noti, merito anche delle reazioni che l’intervista all’autore ha suscitato da parte di Stefano Massini e Michele Serra: Pinocchio è furbino, è scemo, è egoista, il libro (per essere accettabile) avrebbe dovuto concludersi con l’impiccagione del burattino, facendo di Pinocchio un eroe gotico della morte, mentre la metamorfosi finale del pezzo di legno in “bambino vero” è fasulla. E così via.
Scusate, ma io ho una domanda che apparentemente non c’entra nulla, invece c’entra. Qual è la voce di Pinocchio ?
O meglio, qual è la voce di Collodi? Non ho dubbi, quella di Paolo Poli. Un parlare netto, pulito, ironico, toscano di una dolcezza tagliente, che anchequando è cattivo non esce mai dal proprio pentagramma di eleganza. Ecco perché non posso seguire Picca quando definisce Geppetto un «onanista» anzi un «segaiolo», lui e Mastro Ciliegia due «compagni di merende», come «Vanni e Pacciani», il gatto e la volpe due «paraculi». Ma voi riuscite a sentire Paolo Poli mentre pronunzia espressioni del genere? Io no. Ecco basterebbe questo a spiegare perché a Picca non piace Pinocchio.
Che invece è piaciuto e piace a milioni di persone, e per un motivo abbastanza semplice: Collodi non ha scritto un libro ma ha ricomposto i pezzi di una enciclopedia fiabesca, anzi di un’enciclopedia culturale, la nostra, e nello stesso tempo vi ha aggiunto qualche non trascurabile frammento. Si leggePinocchio e nella mente si attivano ricordi di racconti millenari, se coscienti o incoscienti non importa, anzi meglio se incoscienti; ricordi che potenziano enormemente la lettura proprio allorché Collodi (diciamo pure Paolo Poli) li ripropone volta a volta in una tonalità finemente ironica. Le fiabe sono piene di animali soccorrevoli, si sa, ed ecco il falco di Collodi che spezza la corda del burattino impiccato, Medoro aiutante della Fata, poi l’altro cane, Alidoro, salvatore riconoscente, e così via. Poi c’è il motivo del “traghetto” magico (verso il mondo di là? Verso la salvezza?), uno di quelli che Propp, nelle sueRadici storiche dei racconti di fate, indicava come ganglio narrativo fondamentale nelle storie di folclore: ecco dunque il colombo che trasporta il burattino in un viaggio di mille chilometri, il tonno che si prende in groppa i due fuggiaschi dal ventre del Pesce-cane. E poi c’è l’inghiottimento, naturalmente, tema fiabesco (e biblico) fondamentale, il Paese dei Balocchi, reincarnazione di quello di Cuccagna cui Cocchiara ha dedicato un intero libro. Non manca neppure lo scontro col serpente (buone sessanta pagine nel libro di Propp) che però Collodi declina non nel senso della mazza, come quella di Ercole, con cui solitamente l’eroe abbatte il mostro, ma nel senso della risata. Eh già, un mostro che scoppia dal ridere. E qui sento di nuovo la voce di Paolo Poli. E poi, c’è davvero bisogno di ricordare la metamorfosi di Pinocchio in asino, che mangia fieno e si esibisce in un circo, geniale riduzione del Lucio/asino nelle Metamorfosi d i Apuleio? Con la Fata turchina che, da brava Iside monocolore (e non dal velo variopinto, come la cosmica divinità antica) restituisce la sua primitiva forma al burattino, per poi favorirne la seconda, e definitiva, metamorfosi in umano “vero”. Diciamo la verità, trovare da ridire sulla metamorfosi è proprio strano. È una delle forme narrative più antiche e fortunate che si conoscono, se Collodi (con la voce di Paolo Poli) la fa rivivere, oltretutto in uno sguazzo di pesci, che cosa c’è di male?
Dicevo che Pinocchio ha anche aggiunto frammenti alla nostra enciclopedia culturale. Basta pensare alla lingua, l’italiana, quella cui Giovanni Giudici dedicò una delle sue poesie più belle e che giustamente sta a cuore anche a Picca. Pinocchio l’ha arricchita di tante espressioni, come è accaduto con I promessi sposi (ammesso che qualcuno se li ricordi). Allo stesso modo dell’osteria di Collodi, infatti, decine di ristoranti italiani si chiamano “Gambero rosso”, che è anche il nome di una celebre guida gastronomica; il Gatto e la Volpe costituiscono un’accreditata coppia antonomastica per indicare due furbacchioni in combutta; personalmente uso spesso anche l’espressione “Acchiappa- Citrulli”, nome della città dove Pinocchio aspetta che cresca l’albero degli zecchini. Taccio infine del Grillo parlante, altra antonomasia usata per designare una figura forse patetica, anche antipatica, ma proprio per questo insostituibile.
Ecco qua, un ultimo punto. A Picca non piace Pinocchio ma piace molto Cuore. A me no, ma lo rispetto, intendiamoci. Gli piace perché «è il libro della Patria entusiasta e giovane, ben diversa dalla nostra, imputridita… Cuore è un romanzo pieno d’energia». Ora accade questo: che nel tempo Pinocchio è divenuto un mito, lo si voglia o meno, e come tutti i miti ha subito riscritture e ha prodotto varianti innumerevoli. Dunque fra le molte versioni fiorite attorno a Pinocchio c’è anche questa, non so se qualcuno se la ricorda: Pinocchio fra i Balilla, scritto e disegnato da Cirillo Schizzo, pseudonimo di Gino Schianti, anno 1927. Dove a un certo punto il burattino, dopo aver punito severamente due “sbeffeggiatori”, riceve il plauso entusiastico dei compagni di scuola. «Insomma fu una vera dimostrazione di simpatia e di patriottismo… Il maestro sventolò una bandierina tricolore. Pinocchio la prese e si mise in testa al gruppo avvicinandosi alla porta della palestra». Meglio?