il Fatto Quotidiano, 29 marzo 2022
Hendrix a Leopoli
Siamo tutti usciti da Il cappotto di Gogol’, diceva Dostoevskij. Agli altri epigoni è rimasto Il naso, metafora letteraria più sconveniente, ma anche autoironica. Nel caso di Andrei Kurkov si addice al suo stile grottesco, spinto verso il fantastico.
Se Gogol’ era nato in Ucraina e trasferito a Pietroburgo, Kurkov è nato vicino a Leningrado e trasferito a Kiev fin dall’infanzia. L’ho incontrato nel 2005 dalle parti di Majdan, dove ancora c’erano le tende dei giovani manifestanti. Al tempo delle prime grandi proteste si poteva disquisire sulla sua identità di autore ucraino di lingua russa, quindi “snobbato dai critici” su entrambi i fronti. Oggi i fronti sono quelli di guerra, Kurkov si è rifugiato nella parte Ovest del Paese ed è molto impegnato con articoli e interviste a smontare la desinformacija putiniana che si attiene alla “dottrina” di Pasternak nel Dottor Živago, cioè far credere “il contrario della realtà”, per cui un’invasione è una liberazione, i civili morti sono vittime dei soldati che li difendono, le proteste del 2013/2014 un colpo di Stato e uno Stato con presidente ebreo è nazista (“eletto con il 73 per cento dei voti” sottolinea Kurkov).
Tradotto in diversi Paesi, moglie inglese, conosciuta ai tempi dell’università (studiava giapponese, scelto in quanto lingua “più difficile del mondo”, secondo il suo senso dell’assurdo), Kurkov si è autopubblicato i primi libri vendendoli sui marciapiedi di Odessa come “celovek-buterbrod”, uomo-sandwich, e noleggiando un furgone delle pompe funebri per trasportarli e dormirci dentro.
Pubblicato inizialmente in Italia da Garzanti, l’autore ora è passato a Keller, editore di frontiera che ha saputo puntare sull’Est Europa. Il libro che l’ha fatto conoscere è Picnic sul ghiaccio, storia di un giornalista di necrologi e della sua convivenza con un pinguino cardiopatico, ereditato dal fallimento di uno zoo. Insieme al picaresco e malinconico struggle for life post-comunista, gli animali sono una costante di uno scrittore che ha una importante collezione di cactus, è preoccupato per i futuri raccolti e in questi giorni arriva in libreria con Jimi Hendrix a Leopoli, in cui i gabbiani incombono sulla capitale della Galizia, non ancora diventata roccaforte della resistenza ucraina.
Città priva di acqua, senza mare né fiumi, come pochi altri grandi centri urbani – vedi Milano, se escludiamo i residui scorci da “Venezia degli impiegati” dei navigli –, la Leopoli kurkoviana si riempie di spirito e inquietudini marini ed è teatro delle esilaranti avventure e soprattutto disavventure di una sgangherata torma di personaggi. Ci sono un marinaio di Odessa sedotto dal richiamo di una rusalka (la sirena slava) dei Carpazi (le montagne non erano forse fondale marino nella notte dei tempi?) e un capitano del Kgb in pensione che gira con una vespa gialla, alleva colombi e ai tempi dell’Urss sorvegliava gli hippy della città, i quali attendevano messianicamente l’arrivo di Jimi Hendrix.
Sorveglianti e sorvegliati si ritrovano sulla stessa barca in secca, sopravvivono nei modi più assurdi e comunicano quasi solo dopo avere tirato fuori bicchieri, vodka e cetrioli.
Taras scorrazza i turisti polacchi (vicini e cugini più ricchi o meno poveri) sulla sua vecchia Opel per strade sconnesse affinché espellano i calcoli dopo violenti sobbalzi facendosi pagare trenta euro per il servizio. Si innamora della misteriosa Darka, che lavora di notte chiusa dietro al vetro di uno sportello di cambia-valute e indossa lunghi guanti rétro, perché allergica ai soldi, cioè non può toccare le banconote. La conquista portandole del caffè, versato dentro a un posacenere con la scritta “Venezia”: una tazza non passerebbe nella fessura che serve a dare e ricevere denaro. Ci sarà anche una romantica cena a base di carpa e cappuccino.
Oggi il centro del mondo più che Venezia è Vinnica, città dell’Ucraina centrale, e leggiamo queste pagine con la tristezza e la malinconia del caso, ma anche con la fiducia nella capacità di sopravvivere a catastrofi di ogni tipo degli ucraini, grazie anche all’umorismo che qui resta intatto nella ottima traduzione di Rosa Mauro (a parte qualche piccola deviazione dallo stile colloquiale e disinvolto di Kurkov come nel ricorrente “non proferire parola”, per esempio, al posto di “non aprire bocca”). Divertenti i dialoghi di questo Dovlatov meno cupo e autodistruttivo, quasi favolistico e incline all’happy ending. Il barbone alcolizzato, invitato a lavarsi nella doccia di un’associazione umanitaria (Vinniki), teme che gli rubino gli organi per venderli agli oligarchi ma il capitano del Kgb lo zittisce così: “Pensi davvero di avere ancora qualche organo sano là dentro… Magari il fegato?”. Interessante anche, come ci si aspetta da un uno scrittore del 1961, passato dunque attraverso varie epoche storiche, il ripescaggio “culturologico” di vecchi e cari oggetti della vita quotidiana ancora in uso. Come i “govnodavy” (“schiacciamerda”), scarponi dalla spessa suola per le intemperie che oggi si fanno ormai solo in Bielorussia e Transnistria, “ultimi baluardi” dello spazio sovietico.
Di prossima uscita, sempre per Keller, Api grigie, ambientato nel Donbass, storia di un apicultore in mezzo alle guerra. Come in un racconto di Babel’, la preziosa fragilità dell’alveare si accompagna alla devastazione cieca delle bombe.