Corriere della Sera, 29 marzo 2022
I ciclisti africani
A prevedere scientificamente la prima vittoria di un atleta africano in una classica del ciclismo (quella di Biniam Girmay alla Gand-Wevelgem di domenica) fu sette anni fa Luc Van Loon del Dipartimento di Scienze del Movimento dell’Università di Maastricht. Grazie all’intermediazione di un assistente ruandese, il professor Van Loon portò in Olanda per testarli alcuni atleti – dei dilettanti, allenati e alimentati così così – concludendo che i loro valori fisiologici erano uguali o migliori di quelli dei coetanei europei. Diamogli tempo, scrisse, forniamo loro buone bici, buoni coach e giuste motivazioni e vedrete che – come nella maratona, dove 90 dei 100 top runner sono africani – anche nel ciclismo ci sarà una rivoluzione sub sahariana.
A trascinare il movimento è proprio l’Eritrea di Girmay che ha riacceso una passione che covava da 80 anni: fu Mussolini a portare il ciclismo ad Asmara per sollevare il morale delle truppe. L’invasore venne cacciato, la tradizione è continuata. Quando la federazione mondiale ha pescato i primi talenti e i primi allenatori da formare in Svizzera, ha scelto una nazione dove tutti hanno una bicicletta e le corsette domenicali si intersecano in ogni angolo del Paese perché – come nelle Fiandre – la cultura ciclistica nazionale e familiare è decisiva nel formare campioni. E se la maglia a pois di Daniel Teklehaimanot al Tour 2015 ha rotto simbolicamente una barriera, il successo di Girmay in una prova dove si concentrano la bellezza e le difficoltà del ciclismo può cambiare la storia, partendo dall’Eritrea che ha dieci professionisti giovani e di buon livello. Tutti, salvo il periodo delle competizioni dove fanno base in Italia, si allenano a casa loro sfruttando percorsi perfetti e i vantaggi dell’altitudine.
L’altra nazione in rampa di lancio è quel Ruanda che ha appena ottenuto l’assegnazione dei Mondiali del 2025, un progetto inimmaginabile fino a poco tempo fa. In programma a febbraio, il Tour of Ruanda ha un pubblico da far invidia a quello di Francia: le città attraversate si paralizzano e gli atleti pedalano tra due muri di folla. Ora l’Uci sta provando a seminare ciclismo in Kenia ed Etiopia, nazioni leader nelle corse di resistenza, dove fa più fatica per la concorrenza dell’atletica, lo stato delle strade, la mancanza di tradizione.
Ma ricetta è sempre uguale: fornire bici – non importa se vecchiotte, basta siano robuste – formare e spedire sul posto coach ma anche meccanici per avviare il movimento. Il resto lo fanno fame e intelligenza degli atleti: per imparare a correre sui «muri» fiamminghi, Biniam Girmay ci si è arrampicato sopra decine di volte in allenamento, anche col buio, con un’ossessiva voglia di dominare un terreno sconosciuto. Arrivando a battere chi su quei muri ci è nato e ci corre fin da bambino.