Corriere della Sera, 29 marzo 2022
Biografia di Mauro Pagani raccontata da lui stesso
Racconta «la fatica e la meraviglia» di inseguire il genio di Fabrizio De André: «Un uomo del Seicento. Diceva: quando ti viene un’idea comincia a scriverla. Poi mettila in un cassetto, riprendila. Lavora di lima per dieci anni e finalmente sarà pronta. Leggeva, scriveva, correggeva. Cercava la perfezione». Ricorda gli anni con la Pfm, dal 1970 al 1977, «quando accompagnammo l’esplosione del 33 giri e del progressive vivendo in auto, da un concerto all’altro». Parla del periodo bohemien trascorso intorno ai vent’anni «in una pensioncina di via Archimede, a Milano, dove c’erano solo musicisti spiantati e ragazze di vita e l’odore di fritto si attaccava alle nostre giacche di lamé pronte per la serata». Rammenta la musica classica degli inizi e gli incontri con il rock, il blues e la World Music. Di quando, nei primi Anni Sessanta, sposò «una donna meravigliosa», la traduttrice Adalaura Quinque, e Greg Lake di Emerson Lake & Palmer gli regalò un violino: «Abitavamo in una comune vicino al centro di Milano che poi si spostò in una villetta al Parco Ravizza». Si sofferma sul momento più buio: «Una depressione feroce che mi colse nel ’72. Mi resi conto che i sogni di gioventù, la speranza di un mondo migliore, erano svaniti e mi sentii perduto». Mauro Pagani ha più volte confessato di avere un’aspirazione: essere come il MacGyver della serie tv, «risolutore di problemi, all’altezza in qualsiasi situazione». Polistrumentista, produttore, arrangiatore, sperimentatore talent scout, romanziere. A fine Anni Settanta, fu inserito da Music Life tra i dieci migliori musicisti mondiali. Oggi, oltre quarant’anni dopo, prepara un’autobiografia per Bompiani ed è l’autore della colonna sonora della docu-serie Una squadra di Domenico Procacci, prodotta da Fandango, memoir della vittoria ottenuta nel 1976 dell’Italia del tennis (Panatta, Barazzutti, Bertolucci, Zugarelli e il capitano non giocatore Pietrangeli) contro il Cile di Pinochet.
Come nasce un capolavoro?
«Ovviamente si riferisce a Crêuza de mä».
Racconti.
«Beh, c’è da dire che De André ed io avemmo subito la sensazione di essere sulla buona strada. Ma la svolta arrivò quando ci domandammo: perché non inventiamo una lingua nuova, un grammelot, la lingua dei marinai, un miscuglio di italiano, spagnolo, portoghese, arabo?».
Geniale.
«Fabrizio era felice. Ci sembrava di aver toccato la corda giusta. Invece un paio di giorni dopo mi chiamò: Mauro, non c’è bisogno di creare un nuovo vocabolario. È il genovese la lingua che cerchiamo. Suoni, assonanze, elementi evocativi: c’è tutto. Genova è una città di mare, si porta dentro l’idea del viaggio, della scoperta, del mondo che cambia».
La sua risposta?
«Non potei che essere d’accordo. Evitammo il rischio di costruire una parlata solo teorica, letteraria, scritta su una nuvola. Il dialetto è vivo, esprime la realtà di un luogo. Faber ripeteva che le lingue diventano dialetti quando le città dove si parlano perdono una guerra di troppo».
Da amico, confidente, testimone diretto: chi era Fabrizio De André?
«Un uomo pieno di dubbi, come tutte le persone di intelligenza superiore. Belin, sei sicuro? era la frase che girava più spesso tra noi. Non amava la ribalta: mai siamo riusciti a trascinarlo in una diretta tv. Genovese nell’anima, tifoso del Genoa. Tenne fino all’ultimo segreto il progetto Crêuza de mä anche alla Ricordi».
Con De André vi eravate incontrati nei primi Anni Ottanta nello studio di Carimate.
«Sì, lui era stato liberato da poco dopo il sequestro in Sardegna con Dori Ghezzi. Lavorava all’album L’Indiano, io alla colonna sonora di Sogno di una notte d’estate, la mia prima collaborazione con Gabriele Salvatores. Sono certo che mi assunse perché suonavo molti strumenti. Da bravo genovese, voleva risparmiare».
Quattordici anni di lavoro insieme. Perché funzionò così bene?
«A un certo punto Fabrizio cominciò a fidarsi di me. Mi guardava e aggiungeva: va bene, se lo dici tu... Il suo assenso era come una minaccia. Ma lui, macerato dai dubbi, aveva bisogno di fidarsi. La sua fiducia è stata la prova più bella della nostra amicizia. Vede, un conto è avere un rapporto con una persona di talento, un conto lavorare per 14 anni con il più bravo di tutti».
Parliamo del giovane Mauro Pagani.
«Ero un bambino vivace. Quasi sempre solo. Figlio unico, molto amato. Mia madre mi teneva in casa per proteggermi. Una brava chioccia. Mi ha insegnato a leggere: Mark Twain, Joseph Conrad, Jack London, i classici della letteratura per ragazzi. Quando in biblioteca trovai L’amante di Lady Chatterley, mi si aprì un mondo».
Studiava violino.
«Mio padre era primo flauto nella banda: orecchio assoluto, bravissimo. Un uomo di grande rigore, con una mentalità militare. Sento ancora la sua voce: vai a tempo! Mi voleva ingegnere. Insisteva: la musica devi tenerla come hobby. Lui avrebbe desiderato fare il pilota d’aerei. Invece entrò nelle officine meccaniche di famiglia. In quel periodo, conosceva un ragazzo che si stava diplomando a Milano: fu il mio primo maestro. In breve, misi su un quartetto. Ci trovavamo nel laboratorio del signor Serina, che faceva il calzolaio. Dappertutto c’era l’odore del cuoio. Ancora oggi quando ascolto un quartetto di Mozart lo associo all’odore del cuoio».
Chiari, Brescia, fine Anni Cinquanta.
«Abitavamo sopra un’osteria. Ai tavoli c’erano i reduci della Grande Guerra. Mezzi bresciani e mezzi bergamaschi. Si beveva, si giocava alla morra, si intonavano i canti degli alpini e le canzoni di Sanremo. Quando uno attaccava Volaaa, tutti cantavano... colomba bianca volaaa. Mia madre era ipovedente: teneva la radio accesa tutto il giorno. È stata la colonna sonora della mia infanzia, in particolare le canzoni napoletane».
Poi arrivò il rock.
«Fu una folgorazione. Mi feci il ciuffo, che non stava in piedi neanche a martellarlo. Portavo i jeans. Ascoltavo Little Richard, il più grande di tutti. E poi Gene Vincent, Eddie Cochran, Elvis Presley, gran cantante. Noi ragazzi facevamo i duri: imitavamo i teddy boys. Iniziai in quel periodo a suonare la chitarra».
Un’imprudenza.
«Mio padre non voleva e io ero un pessimo chitarrista. Ma ruppi il salvadanaio e decisi di comprarmi prima una Hofner e più tardi una meravigliosa e costosissima Gibson. Andai dai fratelli Pellizzari di Brescia che facevano manutenzione e vendita di strumenti per la banda. Per la Gibson pagai una fortuna. Mio padre capì, prese la chitarra e la restituì. Un trauma».
Si iscrisse all’università, Geologia.
«Venivo dal liceo classico. Educazione salesiana. Bravo latinista e decente grecista. Ma non volevo insegnare. Erano gli anni dell’Eni di Enrico Mattei. Ingenuamente, pensavo che diventando geologo avrei girato il mondo. Detti l’esame di Analisi 1 per cinque volte, incassando altrettante bocciature. Alla quinta prova ero convinto di avercela fatta. Consegnai con un’ora di anticipo e andai in corridoio a prendere il cappotto. La prof, una signora piuttosto arcigna, mi fermò all’uscita. Mi chiese conto della logica del mio compito e concluse con un sorriso materno: signor Pagani, mi ascolti, cambi facoltà».
Quindi?
«Annunciai in famiglia che avrei fatto il musicista di professione. Poche parole: vi voglio bene e so che mi mancherete, ma questa è la mia strada. Ero schiacciato dal senso di colpa. Non ci parlammo per qualche tempo. Poi papà una sera venne a sentirmi: suonavo il flauto, come mi aveva insegnato lui. Rimase in fondo al locale. Non proferì parola. Ma da allora il suo atteggiamento nei miei confronti cambiò. Aveva capito che sì, potevo farcela. Lo avevo ritrovato».
Poi il rapporto con la Premiata Forneria Marconi, la leggendaria Pfm.
«Il gruppo cercava un violinista-flautista. Mi segnalarono. Entrammo subito in sintonia. Restammo insieme fino al 1977. Erano anni fantastici e problematici. Tutto cambiò con l’attentato di piazza Fontana. L’impegno, la lotta politica spazzarono via la melodia e le canzonette».
Il colpo di bacchetta magica?
«L’esplosione dei 33 giri. Fino ad allora l’ellepì era soltanto una raccolta di 45 giri. La rivoluzione fu il concept album. I tempi erano maturi e noi cavalcammo l’onda del rock progressive dei King Crimson e dei Jethro Tull».
Mi racconta l’incontro con Demetrio Stratos, leggendario leader degli Area?
«Demetrio era una forza della natura: fisico possente, una cassa toracica fuori del comune, una voce unica. Dovevamo fare parte di un super gruppo che non nacque mai. Demetrio si ammalò. Lo andai a trovare al Sacco. Incrociai nei corridoi il suo produttore, Gianni Sassi. Mi fermò: Mauro, i medici dicono che non c’è più nulla da fare. Salii le scale con il groppo in gola. Demetrio era irriconoscibile, la sua voce inimitabile non c’era più. Di lì a poco si spense».
Le colonne sonore più belle che ha scritto?
«Per Puerto Escondido e L’educazione siberiana, due film di Gabriele Salvatores».
Il momento più buio della sua vita?
«Quando, una mattina del 1972 mi svegliai e mi resi conto che i miei sogni di gioventù erano svaniti, che mai avrei visto un mondo migliore. Fu una presa di coscienza dolorosa. Caddi in una depressione profonda. Durò mesi. In quel momento facevo 200 concerti all’anno. Vedevo tutto nero e i brani che scrivevo ne risentivano. Mi sentivo responsabile anche per il gruppo».
Come ne è uscito?
«Leggendo, leggendo, leggendo».
Cosa si aspetta ancora dalla sua carriera?
«Quando sei bravo e hai talento sfiori la bellezza assoluta. Non sei un genio, di quelli ce ne sono pochi. Ma senti il profumo della genialità. Ecco: mi piacerebbe diventare bravo. Ma bravo davvero. E sentire appieno quel profumo».