La Stampa, 29 marzo 2022
I soldati russi gambizzati
Ho visto troppe morti violente. Ho conosciuto molto bene il sapore che ha la crudeltà. Ho ricordi dolorosi che cerco di non tenere sepolti perché sentirli solo come una assenza immobile e irrimediabile impedisce di ascoltare il grido dei morti. Per questo non mi stupisco quando vedo scorrere le sequenze di quello che viene indicato già come lo scandalo della crudeltà anche dei buoni, delle vittime, di chi si difende. Sono le immagini di alcuni soldati indicati come ucraini che sparano alle gambe di prigionieri russi, li azzoppano, li sciancano. E quelle del soldato che chiama la moglie di un russo ucciso con il telefonino che ha trovato frugando nel cadavere e le racconta sghignazzando come è ridotto per i colpi che ha subito. Kiev «indaga», garantisce una inchiesta pur smentendo che i propri combattenti violino le norme, ed è già un merito, perché sarebbe più semplice negare tutto, annegandolo nelle ovvie bugie del nemico. Se fossero confermate come autentiche non sarebbe per me che la conferma della malvagità perversa della guerra che non risparmia nessuno, mitizza i guerrieri e giustifica i loro eccessi anche con il pretesto della autodifesa.
La guerra è una divinità crudele e piena di pretese, per farsi adorare e assicurare forse la vittoria esige sacrifici umani, di più: pretende che i giovani che mandiamo a combattere trasformino le stragi e gli atti che devono compiere in un rito di iniziazione. La guerra fatta secondo le regole non esiste.
Che cosa vi aspettavate? La pianificazione dell’assassinio e della violenza è organizzata con la massima efficienza da tutti gli eserciti, quelli che aggrediscono e quelli che difendono. Ma coloro che nel fragore della battaglia emergono, quelli che hanno più potere dalle due parti sono coloro che hanno una vera propensione alla crudeltà, che non si fanno scrupoli. In ogni esercito ci sono sempre tanti piccoli criminali che diventano improvvisamente eroi. Quando si ha bisogno di uomini, di carne da cannone non si può andare tanto per il sottile. Arrivano i volontari, i mercenari, i «foreign fighters»: idealisti? Fanatici? Esteti della bella morte? Imbecilli? Accomodatevi. Abbiamo bisogno di gente che voglia morire.
Tra loro è gente violenta da prima, che crede nella ragione della forza, che esalta la forza, talvolta sono davvero piccoli criminali. Scoppia la guerra e continuano a fare quello che facevano prima. Solo che adesso è tutto vero, hanno un fucile in mano, rubano, saccheggiano, torturano, uccidono. Alcuni eserciti li arruolano astutamente i criminali, sono ottimi soldati. Le brigare Azov ci sono sempre, da tutte le parti, filmano le proprie imprese fosche ne conservano la testimonianza sul telefonino si vantano e le condividono con parenti e amici rimasti a casa: guarda cosa so fare... qui è pazzesco!
I prepotenti che vengono emarginati in tempo di pace diventano i salvatori della patria, i modelli, il simbolo degli ideali più nobili. Il giudizio sui loro vizi viene sospeso, le regole non contano più, c’è la guerra bisogna vincere prima di tutto, a qualsiasi prezzo. L’abdicazione pregiudiziale alla pietà e al diritto offre una sicurezza estrema. Si può fare tutto perché si è protetti da tutti i lati dal senso di colpa, dal provare rimorso. E questo accade anche nelle guerre delle democrazie, dal Vietnam all’Iraq.
Il dato terribile è che non è un problema di ideologia. Chiunque si arruola nella crociata della guerra, ogni volta che crediamo di essere dalla parte della luce, del bene (e tutti pensano di esserlo) in realtà stiamo solo scegliendo i modi in cui compieremo le esecuzioni. In guerra le torture, le distruzioni trasmettono messaggi: chi viola le regole, le convenzioni internazionali che in taluni casi non hanno nemmeno firmato (ma non sono forse una astrazione, un diritto che esiste solo per chi è in pace?), fa ricorso a una violenza sproporzionata sui civili inermi, su una città crocefissa, su prigionieri che si sono arresi, in realtà fa una dichiarazione. Lascia un biglietto da visita, «ci avete attaccato, non tornerete a casa con le vostre gambe...». Oppure «ci avete traditi, vi faremo pagare il conto...».
La guerra mette a nudo il potenziale di malvagità che si annida appena sotto la superficie in ciascuno di noi. Non illudetevi. In guerra anche le persone miti ne vengono modellate. Quando ne assumono la droga anche quelli che ne sono costretti dalla violenza dell’altro, quelli che resistono, prima o poi provano esattamente ciò che provano i loro nemici compresi quelli che definiscono barbari e incivili.
È un meccanismo davvero infernale. Il nemico rappresenta sempre il Male assoluto. E quali regole volete che si debbano rispettare quando si ha a che fare con il Male? Il patriottismo spesso è una forma appena velata di esaltazione collettiva, serve a maledire la perfidia di chi ci odia e attacca, non certo a rafforzare la necessità della nostra clemenza e umanità.
E se fosse vero che i confini della personalità umana in guerra diventano così fluidi da impedirci di sapere chi siamo in realtà? Ma allora dove è la differenza, l’abisso indispensabile che deve separare le guerre delle democrazie da quelle delle tirannidi? In quello che accade dopo: aver fiducia nella giustizia che è il nostro privilegio di uomini liberi, giustizia che è stata annichilita e resa incerta dalla guerra. Le dittature premiano chi si è abbandonato alla malvagità della guerra perché vi riconoscono il suddito perfetto e coprono i suoi delitti sotto il panno della vittoria che dovrebbe cancellare tutto. Le democrazie non dimenticano, indagano, accusano, puniscono i colpevoli.
Molti hanno presentato questa guerra tra nazioni, l’eterno duello tra prepotenti e aggrediti, come una sfida tra le democrazie e l’autoritarismo. Ecco: anche dall’investigare e punire, se vere, le violenze dei propri soldati sapremo giudicare in quale delle due parti Ucraina e Russia militavano.