la Repubblica, 29 marzo 2022
Lo stupro come arma di guerra
Lo stupro in guerra non è un crimine privato né un atto individuale, ma è un’arma. Dove ci sono guerre ci sono stupri perché nei conflitti il corpo delle donne diventa bottino, campo di battaglia. Le donne sono bersagli strategici da colpire per terrorizzare i civili, per distruggere le comunità, e quando è tutto finito sono sempre loro a dover raccontare l’indicibile. In questi giorni giungono notizie di donne stuprate e poi impiccate dai soldati russi nel villaggio di Brovary, a venti chilometri da Kiev. Nelle cittadine di Bucha e Irpin le violenze sarebbero state perpetrate anche contro donne anziane, ancora più vulnerabili perché impossibilitate a fuggire. Secondo alcune testimonianze queste donne, violentate a turno da un gruppo di soldati russi, avrebbero poi deciso di togliersi la vita. Una donna avrebbe raccontato di essere stata violentata di fronte alla figlia dopo che i soldati russi le avevano ucciso il marito. I pubblici ministeri hanno avviato più di duemila indagini a carico dell’esercito di Mosca. Le autorità russe continuano a respingere tutte le accuse dicendo che gli ucraini mentono sugli attacchi contro i civili in quella che loro chiamano ancora “operazione militare speciale” per denazificare l’Ucraina. In effetti, le accuse di stupro non sono state ancora confermate da fonti indipendenti e spesso la violenza sessuale rientra nella propaganda di guerra. Secondo Human Rights Watch, però, le truppe russe si sono macchiate di reati sessuali anche in passato, soprattutto durante la guerra in Cecenia. Nel frattempo, il procuratore capo della Corte penale internazionale, la cui autorità non è riconosciuta né dai russi né dagli americani, è arrivato a Leopoli per raccogliere prove su presunti crimini di guerra commessi dall’esercito di Mosca.
Lo stupro è stato per molto tempo considerato uno sfortunato ma inevitabile effetto collaterale delle guerre, il risultato dei lunghi mesi di astinenza degli uomini al fronte, la soddisfazione di un bisogno naturale. Ne furono esempi, durante il secondo conflitto mondiale, le schiave sessuali nei territori occupati dai giapponesi (le chiamavano “donne di conforto”), gli stupri delle giovani tedesche da parte dell’Armata Rossa e le donne italiane promesse dagli Alleati ai mercenari. Questi stupri, come scrive Carmen Trimarchi, non furono neppure presi in considerazione durante i processi di Norimberga e Tokyo, e anche quelli commessi dagli eserciti vincitori caddero nell’oblio. Le donne italiane stuprate non furono mai risarcite. Diverso invece il caso degli stupri commessi negli anni Novanta nella ex Jugoslavia (in particolare contro le donne bosniache musulmane) e durante il genocidio in Ruanda (quando le donne stuprate erano di etnia tutsi). In questi casi i tribunali speciali internazionali istituiti all’Aia, in Olanda, riconobbero lo stupro come atto di tortura e crimine di guerra. Nel 2008, poi, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione che condanna lo stupro come arma di guerra sostenendo che la violenza sessuale in tutte le sue forme rientra nei crimini di guerra e nei crimini contro l’umanità e deve essere esclusa dalle disposizioni di amnistia. Purtroppo, però, gli stupri di guerra sono continuati. Pensate alle donne yazide ridotte a schiave sessuali dallo Stato Islamico nel 2014 e alle trecento studentesse nigeriane rapite da Boko Haram. Nadia Murad, una delle cinquemila donne yazide stuprate dall’Isis, vincitrice nel 2018 del Nobel per la pace, raccontò come i jihadisti uccisero sua madre e i suoi sei fratelli prima di venderla come schiava al mercato di Mosul.
Perché si stupra? Sicuramente lo scopo è quello di umiliare, dominare, impaurire, sancire la debolezza degli uomini non più capaci di proteggere le loro donne. Ma ci sono ragioni anche più terribili. Nei conflitti etnici, ma anche nelle guerre di occupazione, lo stupro di guerra ha l’intento di generare vita, di far nascere figli. Per i nazionalisti le donne sono anzitutto generatrici e riproduttrici, il loro ruolo è quello di essere “madri della nazione”. Farle rimanere incinte significa “contaminare” l’etnia, affermare la supremazia di un popolo su un altro. Vuol dire anche, come dice Flavia Lattanzi, già giudice del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia e di quello per il Ruanda, distruggere una comunità. Spesso, infatti, le donne stuprate sono ripudiare dai loro mariti e allontanate dalle loro famiglie. Per questo le violenze rimangono spesso impunite: lo stupro è taciuto affinché la donna sia ancora in grado di trovare un marito.
La comunità internazionale ha il dovere di fare luce sugli stupri commessi in Ucraina, raccogliendo testimonianze, verificando fatti e accertando responsabilità, affinché mai più si consideri lo stupro uno sfortunato ma inevitabile effetto collaterale della guerra.