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 2022  marzo 28 Lunedì calendario

Biografia di Vincenzo Salemme raccontata da lui stesso

I quarti di autentica nobiltà partenopea, Vincenzo Salemme li ha tutti. Tifa Napoli, adora la pizza, non ha mai lasciato la città e beve il caffè in una tazzulella bollente. Per la verità ce ne sarebbe anche un quinto, che pesa più di tutti gli altri messi insieme. È figlio – artisticamente parlando – di Eduardo. Uno rema invece contro. È puntualissimo. Tratto non proprio distintivo della napoletanità nell’immaginario collettivo. Luoghi comuni, d’accordo. Eppure sugli stereotipi ha costruito uno spettacolo, quel «Napoletano? E famme ’na pizza», battuta che fa parte di un’altra commedia – «E fuori nevica» – diventata anche un film.
Perché Salemme non è solo un attore di successo con numeri altissimi al botteghino ma è anche un autore. Cioè scrive quello che rappresenta, come questa pièce, partita da Milano, in tournée in tutta Italia, che chiuderà il ciclo di recite in aprile a Roma.
Cioè a casa.
«Veramente abito sia nella Capitale sia a Napoli».
Preferibilmente
«Quando mi incontrano in città, mi ringraziano di essere rimasto sotto il Vesuvio».
Primo simbolo.
«Tutto sommato il più scontato, come quelli geografici in generale».
E tra i più buffi
«Un’equazione. Se sei napoletano, sei anche un po’ imbroglione. Più che altro per le conseguenze comiche di questo concetto. Qualche tempo fa mi hanno rubato il telefonino. E non ero in città. Quando l’ho detto ai miei amici mi sono sentito rispondere: Ma come, ti sei fatto fregare. Che razza di napoletano sei. Come se fosse un deterrente per i ladri».
Prigionieri dei pregiudizi.
«A Milano, se dici di aver mangiato un buon risotto a Palermo, nessuno si offende. Da noi, guai a dire che hai trovato una pizza buona a Roma. Ti rispondono: Ma fammi il piacere, la pizza è buona solo a Napoli. Non lo accettano, sembra un tradimento».
È campanilismo.
«Fino a un certo punto. Effettivamente, un napoletano che fa la pizza a Milano lo trovi ma nessuno ha aperto una risotteria a Napoli. Eppure io, napoletano, amo il risotto. E stasera, con il brodo del bollito, me lo cucino alla milanese. Alla faccia della geografia, anche se nel mio caso conta».
In che senso?
«Quando mi presentano in tv, a festival o rassegne, parte sempre la dicitura per esteso L’attore comico napoletano Vincenzo Salemme. Non accade per nessun’altra regionalità. Come se fosse garanzia di risate assicurate».
Colpa di quell’estrosità geniale e divertente spesso attribuita ai suoi concittadini.
«La verità è che un napoletano non può essere normale. Deve risultare simpatico, avere la battuta pronta. Un po’ buffone, insomma. D’altronde fu proprio Eduardo a definire la nostra città un palcoscenico a cielo aperto. E, oggettivamente, lo è».
Eduardo, un padre artistico.
«Con me aveva la dolcezza di un nonno. Quando sono entrato nella sua compagnia non avevo ancora vent’anni. Ero mingherlino. Magrissimo. Lui ne aveva 77 ed era un mito. Ma si era convinto che soffrissi la fame. Insomma che non mangiassi. Al primo passaggio in televisione mi fece dire qualche battuta, così dovettero darmi una paga da attore. E avrei avuto un pasto decente, secondo lui».
Invece
«Non ero così povero, fortunatamente. Anche se a casa puntarono tutto sui miei fratelli. Mia madre disse: Vincenzo è un randagio, se la caverà. Ha avuto ragione. A Eduardo credo di essere piaciuto, era affettuoso e aveva molta fiducia».
E lei, giovane di belle speranze davanti a un genio
«Nutrivo una riverenza assoluta ma dolce. Gli ho voluto bene come se fosse stato il mio, di nonno».
Eppure si diceva che fosse cattivo.
«Era severo, questo sì. Pretendeva impegno. Ma era un uomo solo. La sua era la solitudine dei grandi. Isabella Quarantotti, sposata quell’anno, e Luca, anch’egli attore, gli volevano bene. Tuttavia Eduardo è uno di quelli destinati a restare soli perché è difficile stargli vicino senza essere condizionati dalla loro grandezza».
Sono personaggi inarrivabili però il talento non dovrebbe intralciare i rapporti.
«Conviveva con il dolore. E la voce che si spezzava continuamente sottolineava la sofferenza. Si portava dentro tutte le interruzioni della vita. Il suo trauma più grande fu la morte della figlia Luisella a dodici anni. Non la superò mai».
Come qualsiasi genitore che sopravvive a un bambino.
«Purtroppo non ho avuto la gioia della paternità ma posso immaginare. Lui si legò al teatro ancora di più. Anche dopo il ritiro dalle scene. Con disperazione».
Lei invece rimase con Luca De Filippo.
«Era una compagnia di giovani, provavamo mille volte gli spettacoli e, di colpo, il palcoscenico si zittiva. Stava arrivando Eduardo. Silenziosissimo. Forse per rispetto verso di noi, impietriti. Un giorno si accorse che eravamo paralizzati e ci disse: Ma pecché tenete paura e me. Si portava addosso la leggenda che era e non se ne rendeva conto».
Oggi quel mondo è tramontato.
«Napoli è una città in fermento ma molti giovani disertano i teatri e recitano sul web. Sul palco non ne vedo molti come online».
È un segno dei tempi?
«Lo spettacolo dal vivo però è un’altra cosa. Conosco registi che, rivedendo in sala i loro film, avrebbero voluto cambiarli. Il teatro è profumi. Odori. Sapori. E anche la possibilità di correggere in corsa un punto rivelatosi debole».
Come se ne accorge?
«È il pubblico a indicarlo. Quando tossisce, si muove sulla poltrona, sbadiglia o smette di seguire vuol dire che qualcosa va rivisto».
Con i classici però è vietato ritoccare.
«Ma con i testi di Salemme si può. O meglio, io posso. Le mie commedie non sono tipiche della tradizione napoletana. Non valgono certo le opere di Eduardo che peraltro non fanno recitare a me».
Deluso?
«Affatto. Bisogna andare avanti. Fermarsi al passato non aiuta autori né attori. Tanto meno il teatro in generale. Se si chiede agli artisti di ancorarsi alle loro tradizioni non nascerà mai niente di nuovo. E di buono».
E questa ripresa ha il sapore di un secondo esordio.
«Ho debuttato a fine novembre a Orvieto dopo la pandemia. Quando si è alzato il sipario è scoppiato un applauso che mi ha commosso. Lo confesso, mi è spuntata una lacrima. Quei battimani mi hanno rimesso al mondo».
Che cosa le fa paura oggi?
«Ho il terrore di essere dimenticato. Prima che il virus bloccasse tutto, alla fine di ogni spettacolo, salutavo dicendo Noi artisti, senza voi pubblico, non esistiamo».
E, rientrando in scena, che cosa pensa fra sé e sé?
«Chissà se si ricorderanno ancora di me».
Eredità del Covid.
«Ho avuto la fortuna di non perdere nessuno ma mi è rimasta la sensazione di scomparire. Il timore che, al di là dell’affetto, possa non rimanere nulla».
Che cosa rappresenta la notorietà per lei?
«Essere conosciuto da tutti, che non significa essere bravi. Si può essere famosi anche per aver ammazzato qualcuno».
E la bravura, allora?
«Un attore ha meriti soltanto se riesce a convincere il pubblico a uscire di casa per andare a vedere il suo spettacolo. E chi assiste ha il diritto di esprimere giudizi. Ha qualità chi sa attirare, scrivendo, recitando o partecipando a trasmissioni televisive ma questo non significa fare gli opinionisti».
Quanto è difficile scrivere una battuta che faccia ridere?
«Bisogna metterci sentimento. Scavare nell’anima. E niente ci riesce come il teatro. Detto questo, certe volte non ci si aspetta la risata che poi arriva mentre in altri casi si è convinti di far esplodere l’entusiasmo e invece non succede nulla».
Le è capitato?
«In positivo ricordo una commedia del ’94. Il protagonista vincente era un picchiatello ma all’epoca il diverso era guardato con compatimento non con considerazione. Invece piacque».
E in negativo
«Un libero allestimento della Vedova allegra che mi chiese l’Opera di Roma. Io avevo spostato l’ambientazione dal Montenegro al Regno delle Due Sicilie. Erano i mesi dell’emergenza spazzatura e feci scendere un telo con i sacchi di immondizia. È scoppiato un putiferio. Il loggione fischiava. Sono finito pure al Tg1. Dalla mia parte era rimasta solo l’orchestra (ride)».
E allora
«Come dicevo prima, serve umiltà e correggersi. Eppoi le battute bisogna anche saperle dire».
Faccia un esempio.
«Prendiamo Totò. Ma mi faccia il piacere è una frase quasi totalmente insignificante però in bocca a lui, con quel viso sbilenco, mentre toccava il povero bravissimo Mario Castellani o dava di gomito ad Aldo Fabrizi ebbene, diventava eclatante. E chiunque sognava di ripeterlo a ogni imbecille che incontrava. Una rivoluzione».
O un tormentone Come «Te piace o presepe». Oggi detto anche a sproposito.
«Il presepe è una metafora del mondo e della vita. Luca Cupiello è un uomo innocente che sospettava insidie in famiglia. E chiedeva a tutti se piaceva il presepe. Cioè se a casa si trovavano bene».
Il presepe in fondo è la perfezione
«È qualcosa costruito con le proprie mani. Ma tra i coniugi Cupiello le prospettive sono diverse. Come sempre fra uomo e donna».
Qual è il punto di vista maschile?
«È più astratto. Siamo convinti che la vita sia un film. Insomma, non cresciamo mai».
Ci sono uomini con i piedi ben saldi per terra.
«Ma vivono di sogni. Ricordo un film di quando ero bambino, I magnifici sette di John Sturges. Mi colpì che quattro di loro morivano e per dieci giorni sono tornato a vederlo sperando che il finale cambiasse».
Era piccolo. Poi, crescendo, è diventato più saggio.
«Ma continuo a sognare. Speravo che la scienza ci salvasse dal virus in un batter d’occhi. O che la politica ci governasse, mettendo tutto a posto. Noi siamo fiducia e astrazione».
E la donna?
«Loro sono attesa. Sospetto. Mettono al mondo i figli, hanno un senso concreto dell’esistere».
Anche nel matrimonio?
«Soprattutto. Un uomo prima di sposarsi ha un’idea di come sarà, una donna arriva all’altare perché decide come sarà».
Oggi però non si sposa più nessuno.
«Sono anni di sofferenza della fede».
Che rapporto ha con la religione?
«Mi piace molto la parte nobile della Chiesa. Il Papa. Le suore. Sono straordinarie. A scuola ho studiato con loro. Erano severe ma dolci. Sono donne che hanno rinunciato al dono della maternità, non alla stupidaggine della sensualità. E per farlo, serve coraggio. Prenderanno peso nelle gerarchie ecclesiastiche».
E il Vangelo?
«Mi piace quello che dice ma non mi definirei un credente nel senso classico. Mi sembra presuntuoso. In fin dei conti chi siamo per permetterci il lusso di dire in assoluto Dio esiste o Dio non esiste».
Cosa intende?
«Dio è il dubbio e la certezza. Il dolore e la gioia. L’universo ha cento miliardi di stelle e galassie. Questo dovrebbe insegnare la religione, il senso di infinito. Dobbiamo solo prendere atto che la vita esiste, ringraziando appunto Dio».