Il Messaggero, 28 marzo 2022
La crisi della classe media in Giappone
Fino alla fine degli anni ’80, il 90% dei giapponesi apparteneva o almeno così si dichiarava nei sondaggi alla classe media. Era l’era delle cosiddette 3C: car, color Tv, air conditioner (macchina, TV a colori, condizionatore). Il reddito medio parametro sempre molto ambiguo e poco affidabile per appartenere a questa classe era, in termini attuali, di circa 50 mila euro l’anno. E c’era anche una quarta C, già acquisita o oggetto di ragionevole aspirazione: la casa in proprietà.
La progressiva espansione della classe media che in genere si misura con il cosiddetto indice Gini (dal nome dello statistico svizzero che l’ha inventato: più è basso è più è alto il livello di distribuzione del reddito in una data società) è stato un fenomeno comune, nel dopoguerra, a tutte le grandi democrazie industriali, ma particolarmente vistoso nei Paesi che erano usciti distrutti dalla guerra: Germania, Italia e Giappone, appunto. Erano gli anni del boom, del miracolo economico, del futuro percepito sempre più radioso ed il Giappone, in particolare, aveva letteralmente spiccato il volo. Una lunga corsa in corsia di sorpasso, che lo vide superare una dopo l’altra le potenze industriali europee ed accarezzare addirittura il sogno di avvicinarsi e, perché no, superare anche gli Stati Uniti (cosa che invece tra poco, pare entro il 2030, farà la Cina). Poi però è scoppiata la bolla, è iniziata la lunga recessione, il lungo ventennio perduto – divenuto nel frattempo trentennio, con l’inopportuna appendice della pandemia e ora della guerra – e la classe media, in Giappone come altrove (in Italia la situazione è molto simile) si è via via assottigliata. Ora meno del 50% dei giapponesi dichiara di appartenervi, ma il fattore Gini, che negli ultimi anni è decisamente aumentato, mostra una realtà molto più preoccupante, con un aumento di vecchi e nuovi poveri e il sempre maggiore arricchimento dei paperon de’ paperoni, categoria di cui l’Asia detiene oramai da anni il primato assoluto (solo in Cina i miliardari in dollari sono oltre 1100, contro i 700 americani).
Ma come vive oggi un giapponese appartenente alla classe media? Ce lo spiega la rivista Spa, che ha di recente dedicato un ampio reportage all’argomento.
Innanzituto, il reddito: in termini reali, è calato: da circa 50 mila euro l’anno negli anni ’80 è oggi attestato sui 40 mila. Le 3C (car, color TV, air-conditioner) ovviamente ci sono ancora, ma la quarta C, la casa, è scomparsa. Chi è riuscita a comprarsela deve sperare di potersela mantenere, dato che se la vendesse oggi, subirebbe un’enorme perdita. Ma chi non ce l’ha, soprattutto i giovani, può scordarsela: a parte i prezzi, che sarebbero anche calati, c’è il problema del mutuo: le banche non concedono prestiti a chi non ha un lavoro fisso, e oggi meno del 10% della forza lavoro gode di un contratto a tempo indeterminato. Tutti gli altri vivono col fiato sospeso come scrive nel suo editoriale la rivista Spa in ansia perenne su come far quadrare il bilancio familiare in un paese dove i salari sono rimasti invariati per oltre vent’anni (con un piccolo aumento registrato ai primi tempi della cosiddetta Abenomics, peraltro immediatamente assorbito dall’aumento dei prezzi) mentre i costi sono continuamente aumentati. Dagli affitti ai trasporti pubblici, dalla benzina alle spese per l’istruzione, che in Giappone sono da sempre proibitive, specie se si decide di inserire i figli nel circuito privato. Parliamo di almeno 200 mila euro, per la scuola dell’obbligo (11 anni) poco meno di ventimila euro l’anno, senza pensare poi agli anni dell’università e di eventuali specializzazioni. E poi ci sono le bollette: telefono, acqua, luce, gas. In continuo aumento negli ultimi anni, ma che negli ultimi tempi hanno subito una vera e propria impennata. Ovvio che in questa situazione i consumi siano precipitati, rendendo sempre più difficile la sia pur timida ripresa economica prevista per il dopo pandemia. E ora ci si è messa pure la guerra.