La Stampa, 28 marzo 2022
Quei generali lacchè di Putin
Che succede? In Ucraina i russi marciano per modo di dire. Tirano avanti. In questo massacrante tira e molla sull’orologio di Putin la famosa “ora x’’ tarda a scoccare. L’uragano demolitore dopo un mese di battaglie raggrinzisce alla «conquista totale del Donbass». È un minimalismo a cui sembrano rassegnati con prosa fatalistica perfino i bollettini; in cui pare di intravedere la frase impronunciabile: accontentiamoci di una vittorietta mutilata. Gli strateghi russi menano colpi qua e là senza una logica, mettendo missili e carri armati sulle orme di quella che è l’ultima risorsa quando tutte le tattiche hanno fatto fiasco, sperare cioè nell’occasione, un varco che il caso o una distrazione del nemico offra per riprendere l’avanzata. Addirittura, nel terzo millennio, c’è chi fa lampeggiare il ruolo del Generale Fango, il fango ucraino scuro, denso, attaccaticcio come una colla da falegname che starebbe arenando i carri russi come fece in un tempo lontano con i patetici camioncini dell’Armir. Gli ucraini, ma qui c’è da prender le cose con cautela visto che in guerra la propaganda è cosa sacrosanta, descrivono già una armata di marcanti visita e di disertori che sarebbe addirittura sull’orlo del collasso.
La potenza militare russa, che non è una invenzione di Putin ma purtroppo è terribilmente concreta, sembra aver smarrito la capacità operativa, ovvero conquistare territorio, città, accerchiare e sgominare il nemico in operazioni campali, per ridursi alla capacità distruttiva ovvero sbriciolare le città e i civili con una implacabilità che ha precedenti solo nelle pagine più truci dell’antichità barbarica. Una guerra che può riservare agli ucraini lutti e sofferenze di cui probabilmente finora hanno avuto minima ma già sanguinosa e intollerabile esperienza.
Bisogna allora venire al punto chiave: che sono sempre i generali. Anche perché un buon numero tra loro, comandanti di grandi unità operative, per ammissione degli stessi russi, è caduto sul campo entrando nell’indesiderabile elenco degli eroi da lapide. Realtà che si può leggere in due modi. Nell’armata russa non c’è la piaga dei pagnottisti, degli strateghi da scrivania e termosifone attaccati come ostriche alla carriera e c’è invece l’abitudine a scendere sul campo di battaglia. Oppure che la situazione è così compromessa che per non rischiare il siluramento di stampo cadorniano o peggio (siamo in un regime dispotico, il collocamento nella riserva spesso scivola nella galera o nel plotone di esecuzione) l’eroismo è l’unica via di uscita. Qualcuno rischia e grosso: il ministro della difesa per esempio Shoigu, mascella volitiva ma volto grigio come la cenere e coronarie deboli, si mormora colpito da infarto dopo un passaggio degli occhi burrascosi del capo. O Gerasimov, l’uomo che ha modernizzato la scalcinata armata dei tempi eltsiniani, dilettissimo al presidente. Fino a ieri: sembra già relegato nei gironi più periferici degli ammessi al Cremlino.
Il rapporto è sempre complicato tra gli stati maggiori e i dispotismi come quello putiniano. Le dittature sono una benedizione per i generali. Putin ha scommesso tutto sulla ricostruzione della potenza militare per giocare l’azzardosa partita di ridiscutere gli equilibri del mondo. Dopo anni di lesina e di miserie impiegatizie i generali vedono le cifre del bilancio gonfiarsi a dismisura grazie ai soldi del petrolio e del gas. Nulla è più vietato: armi, attrezzature, manovre.
È l’ora dei “kontraktiki”, i soldati di mestiere, degli “otlichniki” gli eccellenti, i soldati scelti, dal ricco stipendio che fa invidia in un paese che resta popolato di poveracci. Non si parla che di super carri armati super portaerei bombe di qua bombe di là missili ipersonici termobarici antisatellite antinave antitutto. Una goduria a cui attingere a piene mani.
Ma chi sono i beneficiati? Il dittatore che per sopravvivenza è costretto a non fidarsi di nessuno, soprattutto di gente che maneggia ogni giorno fucili e cannoni, è di fronte a una scelta delicata. È meglio puntare sul generale cortigiano, un incapace ma disposto sempre a obbedire, a incensare? Oppure dare fiducia ai tecnici, quelli che conoscono il mestiere come Gerasimov che ha fama di pianificatore capace? Con loro però si corre il rischio di dover discutere, di sentirsi dire no, orrore! Di accorgersi di non avere sempre ragione.
È probabile che per questa operazione molto speciale Putin si sia affidato ai primi, agli incapaci, i lodatori, gli specialisti in stivali lucidi e allineati avanti marsh sulla piazza rossa, che non danno grattacapi. Non si può sfuggire alla tentazione del paragone con un precedente nostrano, la campagna di Grecia durante la seconda guerra mondiale. Le assonanze sono folgoranti. Spostate lo sfondo dalla riunione decisiva al Cremlino tra Putin e i vertici militari a palazzo Venezia,15 ottobre 1940, anno diciottesimo dell’era ancora per poco fascista. I due capi supremi: entrambi accigliatissimi, toni bruschi, quasi sgarbati risuonano nei saloni deputati alla toponomastica delle decisioni irrevocabili. In mezzo c’è un secolo ma sull’attenti ci sono le stesse pance prelatizie, ingombre di greche e medaglie, intorpidite da digestioni e bevute laboriose. Si è lì per prendere ordini, lo sanno. Tutta gente che, a Mosca e Roma, da venti anni è dispostissima ad adeguarsi. Putin vuole l’Ucraina. Mussolini vuole la Grecia: alla svelta, subito, in fretta. Una piccola guerra, una bella piccola guerra tutta per loro. Per Vladimir gli ucraini sono dei rammolliti dal consumismo pitocco all’occidentale; per Benito i greci li hanno adulterati secoli di molle dominio ottomano.
A palazzo Venezia il cortigiano gallonato e incapace si chiamava Visconti Prasca. Garantì che se gli affidavano il comando sarebbe salito sull’acropoli in pochi giorni, una passeggiata. Il regime greco sarebbe crollato come cartapesta, parola dell’intelligence. Un giorno sapremo chi ha garantito la “liquidazione” di Kiev a Putin in tre giorni. Di quante divisioni aveva bisogno ? Chiese il Capo che temeva le solite richieste spropositate che servivano a rendere l’impresa impraticabile e restare al calduccio. Sette divisioni scandì l’altro, con tono sicuro. L’equivalente dei 120 mila uomini con cui i russi si sono gettati nell’operazione speciale. Mossa accorta quella di Visconti Prasca: una armata più grande avrebbe significato che il comando sarebbe stato affidato a un generale di grado superiore. Si marcia! disse Mussolini deliziato da quella così smilza ed economica cavalcata delle walchirie. Anche Putin certamente non voleva sentir altro. Badoglio e compagnia, i tecnici, sapevano benissimo che era una follia. Tacquero, solo Badoglio uscì, si dice, un po’ imbronciato. Chissà che faccia aveva Gerasimov.