Corriere della Sera, 28 marzo 2022
Biografia di Franco Malerba raccontata da lui stesso
È vero che con un ritaglio di giornale, una volta, si poteva finire nello spazio e diventare il primo astronauta italiano?
«In effetti sì: l’occasione di entrare nel mondo spaziale arrivò con un ritaglio di un giornale in cui si leggeva che stavano cercando scienziati e ingegneri per il primo volo dello Spacelab. Era il Financial Times e me lo portò un collega che era stato in Gran Bretagna per lavoro. Fu tutto molto casuale. Lo conservo ancora».
Franco Malerba, 75 anni nato a Busalla, Liguria, dove da anni organizza l’immancabile Festival dello Spazio, è stato il primo astronauta italiano. Ha fatto parte dell’equipaggio dello Space Shuttle Atlantis partito il 31 luglio 1992 nel corso della missione STS-46.
Non la chiamo ex astronauta...
«Noi astronauti non siamo mai ex: siamo come i preti che hanno ricevuto l’investitura e che la portano avanti fino alla fine. Io mi sento ancora come un messaggero».
In tutta la storia, in effetti, siete poco più di 600 a poter dire: siamo andati nello spazio.
«Siamo una popolazione piccola, una specie rara, oggetti da collezione».
Tra pochi mesi saranno passati trent’anni da quel suo volo con lo Space Shuttle. Un volo che in realtà venne ritardato per 14 anni dall’omicidio Moro. Lo ha ricordato proprio lei nel suo libro autobiografico «Professione astronauta. La lunga strada per arrivare allo Spazio».
«È una storia tra le pieghe degli anni di Piombo che non era mai emersa ma di cui fui testimone: l’Italia stava cogliendo insieme alla Germania l’opportunità della corsa allo spazio. Avremmo potuto, in effetti, far parte già da quel maggio del ‘78 – pochi anni dopo la conquista della Luna nel ‘69 – della selezione di punta che portò nelle esplorazioni spaziali i primi europei occidentali, insieme agli americani».
Ricostruiamo il momento: è il 9 maggio del ‘78 e poche ore prima del ritrovamento del cadavere nella Renault 4 rossa in via Caetani, il politico della Dc è stato ucciso dalle Brigate Rosse dopo 55 giorni di prigionia. Sono mesi di fuoco per l’Italia. Al governo c’è Andreotti. Il Partito Comunista avanza. E proprio in quei mesi si stava giocando una partita all’interno del Patto Atlantico molto importante. L’Europa occidentale era stata chiamata a selezionare gli astronauti per partecipare ai primi lanci dello Space Shuttle. E l’Italia era già entrata a pieno titolo, con lei, nella prima selezione. D’altra parte eravamo, dopo la Germania, i secondi finanziatori del progetto Spacelab. Ma pochi giorni dopo la morte di Moro lei ricevette una telefonata.
«Ricevetti un garbato benservito. Mi dissero che l’Italia non avrebbe fatto parte della missione che, per la prima volta, univa l’Europa con la Nasa in un evidente gesto che non aveva solo un valore simbolico e diplomatico, ma era anche una condivisione operativa nel campo strategico della tecnologia».
Partì un astronauta tedesco, una decisione ineccepibile visto il peso dei finanziamenti di Berlino. Ma, anche con il senno di poi, risulta ancora oggi bizzarro che a lei fossero stati preferiti un olandese e uno svizzero.
«Fu il costo della disattenzione politica e del caos legati all’omicidio Moro. Nei trattati intergovernativi, già al tempo, si parlava esplicitamente del principio del “giusto ritorno” per i Paesi finanziatori. I Paesi Bassi e la Svizzera investivano briciole. Allora avevo 32 anni, l’età ideale per iniziare questo mestiere: prima è difficile per non dire impossibile, perché servono troppe competenze. A 40 anni si ha davanti un orizzonte che non giustifica più il costo dell’addestramento».
Fu solo grazie alla sua testardaggine che l’Italia rimase in scia accumulando, però, un ritardo di oltre dieci anni. Lei partì a 45 anni.
«Saremmo potuti partire prima, questo è certo. D’altra parte ero piuttosto titolato: avevo due lauree, una in Ingegneria elettronica e una in Fisica all’Università di Genova. Avevo lavorato negli Stati Uniti per investire anche sulla lingua inglese e avevo preso un brevetto di pilota privato. Su aeroplanini da quattro soldi, dei Cessna biposto».
Ma prima del ritaglio di giornale voleva fare l’astronauta?
«No. La grande vocazione della mia vita era lavorare nell’ambito della scienza e per questo avevo cercato l’occasione negli Stati Uniti. Avevo lavoravo al Cnr nei laboratori di cibernetica e biofisica: piuttosto gratis dovrei dire. Ero un borsista. Non fu particolarmente gratificante dal punto di vista economico, ma dal punto di vista della dinamica e dell’esperienza molto».
Tornato in Italia fece il servizio militare in Marina, da buon genovese. Poi rifiutò un posto di lavoro negli Usa e fece la selezione. Cosa le disse la sua famiglia?
«Alla mia famiglia non dissi nulla del viaggio a Roma per la selezione presso il centro dell’Aeronautica Militare di Castro Pretorio. In effetti tenni la cosa molto segreta, ma non fu facile. Le prove si tenevano il giovedì, il venerdì e il lunedì. Ma il venerdì sera mi rubarono la valigetta che avevo lasciato nell’auto. Dovetti tornare a Milano di corsa, bloccare la carta di credito e prendere un po di soldi. A quel punto per mia madre la situazione era diventata un po’ sospetta...».
Al rientro abbracciò suo figlio Michele. Se le dicesse che vuole partire per lo spazio?
«Gli direi che è un’esperienza meravigliosa».
Stiamo vivendo una nuova era di turismo spaziale, anche se, per adesso, è per soli ricchi. Ma giusto in caso... trucchi per non stare male fuori dall’atmosfera terrestre?
«Sembra un rimedio della nonna. Mi venne suggerita questa strategia da Frederick Drew Gregory, un collega che era stato per tre volte al comando di una missione. Mi disse: muovi il meno possibile la testa. Se devi guardare a destra muovi solo gli occhi e non il collo. La ragione è semplice: gli organi dell’equilibrio si trovano nelle orecchie e dunque, minimizzandone il movimento, si riducono gli stimoli. Il viaggio può diventare una via Crucis ma, in effetti, a me non accadde».
Altri consigli?
«A causa dell’ipergravità durante il lancio noi sopportiamo un’accelerazione 3G. Il peso del corpo si moltiplica per tre, ma anche quello della tuta. Quando entravamo nello Space Shuttle avevamo uno zaino sopra il petto con due bombolette di ossigeno da usare nell’ipotesi di un lancio di emergenza fuori dalla navetta. Era uno zaino che pesava 10 kg e che dunque diventava di 30 kg. Ricordo che durante la quarantena prima del lancio chiesi a un altro collega, Charles Bolden, se avesse qualche suggerimento. Lui mi disse: quando ti mettono sul sedile ti stringono le cinture delle bombole a morte perché così è scritto nel manuale. Tu allentale. Se ti devi lanciare vuole dire che di problemi ne hai così tanti che le cinture diventano l’ultimo».
Voi astronauti portate sempre qualcosa nello spazio. Lei cosa portò trent’anni fa?
«Ci sono due zainetti, uno ufficiale e uno personale. Nel primo portai delle bandiere: quella italiana, quella della Marina Militare, quella del Cnr, quella dell’Università di Genova, quella delle Nazioni Unite, perché mia moglie Marie-Aude al tempo lavorava a un loro programma, e infine quella europea che fu vittima di una storia un po’ oscura...».
In quale senso?
«Avevo scritto al presidente della Commissione europea, Jacques Delors, che da convinto europeista stavo portando la bandiera europea nello spazio. Ricordo che mi rispose con una lettera ciclostilata. Ci rimasi male. Ma non finì lì, perché poco dopo il mio ritorno dallo spazio venni candidato da Berlusconi all’Europarlamento e venni eletto. Mi dissi che da europarlamentare sarebbe stato un momento magico per restituire la bandiera europea, ma siccome facevo parte di Forza Italia, che in quel momento non aveva una gran reputazione, Delors non accolse l’occasione nemmeno quella volta».
E nello zainetto personale cosa aveva?
«In quello avevo delle medagliette della Madonna della Guardia. Una l’abbiamo portata a Papa Giovanni Paolo II e una al Santuario della Guardia che per me è un luogo molto importante perché da una parte vede Busalla e dall’altra Genova».
Mai avuto paura a fare un mestiere così pericoloso? Prima del suo volo c’era già stato il disastro del Challenger nel 1986.
«Si finisce per diventare, in un certo senso, l’armatura di un personaggio: non sei più te stesso ma quello che la gente si aspetta che tu sia. Comunque dopo il disastro del Challenger la Nasa elaborò una policy per evitare il ripetersi di una cosa orribile: le telecamere durante l’esplosione vennero puntate sui volti dei genitori della maestra che era a bordo. Da allora in poi la procedura fu questa: alle famiglie venivano offerti dei pasticcini e del caffè, poi però, dieci minuti prima del lancio, venivano portate su una terrazza separata. Mio figlio Michele aveva 5 anni. La moglie del comandante era in sostanza la persone da seguire: quando diceva “engines cut off” (il distacco dei motori) allora voleva dire che era andato tutto bene».
Andò tutto bene.
«Sì, ma qualche giorno prima della missione mi approcciarono dei funzionari Nasa per dirmi che avrei dovuto nominare il mio contingency officer... non sapevo cosa fosse. È chi si occupa del recupero dei resti e dell’assistenza alla famiglia. Scelsi Steve Nagel. Quando glielo chiesi mi disse che era un grande privilegio per lui».
Andremo su Marte?
«Sì, ma non oltre... se me lo dicessero non ci scommetterei una cena».
Un’ultima cosa: la sua è stata l’unica bandiera europea portata nello spazio?
«Non lo so, ma io nella mia ci credevo molto. Come oggi: con tutto ciò che sta accadendo in Europa non posso che fare gli auguri a Samantha Cristoforetti. Non è un momento facile per andare nella Stazione Spaziale Internazionale».