La Lettura, 27 marzo 2022
Elodie si racconta
«Dove le parole falliscono, parla la musica». È una frase di Hans Christian Andersen. All’autore di mille fiabe meravigliose, così come ai fratelli Grimm o a George Sand, sono intitolate molte strade del quartiere di Roma dove Elodie Di Patrizi è nata e vissuta. Si chiama Quartaccio e nacque negli anni Ottanta con l’ambizione di costituire un modello urbanistico di quartiere vivibile nella periferia della città. Ma quel lembo di Roma diventò rapidamente complicato, perché la città era scucita.
Dice Elodie ora: «L’emarginazione è totale, quando sei emarginato è una condizione fisica, sociale, psicologica. E più cresci e più diventa difficile interagire con il resto della società perché ti sentirai sempre un po’ fuori posto. È come entrare in un negozio di lusso e avere la sensazione che non è il tuo luogo, che non ti senti a tuo agio».
Elodie appartiene a una generazione musicale che non è la mia. Io ho conosciuto e amato i cantautori. E più erano complicate le loro parole, più magici i mondi che descrivevano e più noi eravamo rapiti. Ora, come si dice, la musica è cambiata.
In meglio, in peggio, chi può dirlo. Per questo cerco di capire il personaggio di Elodie, che ha un suo mistero, con lo stesso spirito e la stessa curiosità, si parva licet, con cui ricordo Enzo Biagi e Sergio Zavoli intervistare Gianni Morandi o Rita Pavone.
Ora è uscito un nuovo singolo di Elodie, «Bagno a mezzanotte», e ha appena girato il suo primo film, per la regia di Pippo Mezzapesa.
Dice: «Devolverò tutti i guadagni del brano a Save the Children. Voglio aiutare le donne e i bambini coinvolti in questa guerra assurda. Almeno cerco di essere, nel mio piccolo, utile in questa tragedia».
Elodie ha fama di essere reattiva, di perdere le staffe facilmente, di reagire duramente se attaccata. Io ho visto, forse mi sbaglio – le prime impressioni sono sempre solo una sensazione – una persona orgogliosa e fragile. Orgogliosa di avercela fatta. Orgoglio legittimo per chi non è nato e cresciuto nella bambagia, per chi la fatica di vivere l’ha incontrata presto. Lei li chiama «contesti un po’ più complicati». Ma poi aggiunge che anche lì «...tutto è possibile se c’è impegno, se c’è amore, se c’è rispetto e se sei in grado di sognare. Sembra una cosa per i bambini, ma i bambini sono molto più adulti degli adulti. Loro sanno cosa significa diventare adulti, avere un obiettivo, edificare un futuro e non rimpiangere un passato. Devono fare, non hanno fatto. Ho imparato che si può realizzare quello che si vuole nella vita. Nessuno ci può imporre dove dobbiamo stare, in quale contenitore essere. Nessuno ci può inchiodare al posto dove siamo nati, dove siamo cresciuti. Nessuno può decidere che noi dobbiamo essere emarginati per tutta la vita. È una condizione che ho sofferto. Ma poi ho lottato, mi sono difesa. Non mi sono fatta attribuire un destino da altri».
Questa ragazza sa che il successo non è per sempre, in questo tempo frettoloso: «Ho sempre paura che quello che ho costruito nel tempo mi venga tolto da un giorno all’altro. Con quest’ansia convivrò sempre. Ognuno convive con i propri mostri. Questo è il mio».
Le chiedo da dove nasca la fama di essere suscettibile. «È vero, mi arrabbio spesso. Mi arrabbio perché mi difendo. Mi rendo conto che ci sono dei meccanismi difensivi che però ormai sono troppo grande per utilizzare. In realtà uso la rabbia perché mi sento fragile. Sono grande, ho trent’anni e quando mi sento ferita, ma anche da cose che apparentemente sono niente, reagisco comunque con rabbia. Mi difendo subito, ho paura di non essere presa sul serio, ho paura di non sembrare intelligente, cerco di difendere la mia posizione, sempre. Talvolta esagero e mi scuso».
I suoi genitori si sono separati quando lei e sua sorella erano bambine. Ne parla con tenerezza, dice: «...ho sempre visto i miei genitori come essere umani... ho sempre cercato di capire chi avevo di fronte, di confrontarmi con i limiti che abbiamo tutti, io per prima. Ho cercato di prendere le cose per come erano, anche se non era facile».
Però poi aggiunge: «Non mi sono mai sentita figlia. Anche oggi faccio sempre un po’ fatica a capire cosa veramente mi renda così reattiva, quasi animalesca. È la paura della solitudine, banalmente. Credo che ce l’abbiamo un po’ tutti, io mi sono sentita tanto sola nella mia vita».
Le chiedo che rapporto abbia con le case, come luogo di rifugio o come prigione: «Io vivo da sola da dodici anni, forse qualcosa di più. Negli ultimi anni mi sono trasferita a Milano e mi sono resa conto di aver cambiato una casa ogni anno. Dalla prima volta in cui sono andata a vivere da sola, a diciannove anni, ho fatto tantissimi traslochi fino a trovare l’appartamento dove vivo ora. Per me le case sono sempre state dei luoghi da lasciare. La mia vita era fuori dalla casa, non l’ho mai sentita mia, non ho mai sentito una vita tra le mura. Conta sempre l’imprinting, nella vita. Adesso, dalla pandemia in poi, ho capito invece quanto sia importante un luogo sicuro, dove tutto sia familiare, dove sentire calore».
Le chiedo se sia single, so che ha avuto una lunga storia con Marracash, uno dei protagonisti di quella che ora viene chiamata, chissà perché, «la scena musicale»: «Credo sia bello condividere la vita. Senza progettare troppo, perché a me la progettazione mette tensioni. Rende definitivo ciò che invece deve essere vissuto e costruito. Progettare troppo non è il mio forte, però credo che sia bello condividere».
Le chiedo quando ha cominciato a cantare. La immagino bambina tosta, al Quartaccio. O forse solo bambina, tra quelle strade con i nomi da fiaba: «Avrò avuto undici anni. Il primo “concerto” in assoluto è stato il battesimo di mia cugina, in cui ho cantato un pezzo di Mina e uno di Battisti. Erano i primi brani che ho imparato a memoria Grande, grande, grande e Amarsi un po’. Ho ascoltato tanta musica dei cantautori e tanto pop. La prima ti cura, si preoccupa di farti più bello, migliore, ti fa crescere. Come leggere un libro. L’altro l’ho sempre visto come un modo per rimanere piccoli, bambini. Il pop è un modo per giocare, ti fa venire voglia di essere altro da te, di immaginare, ti fa sognare. La prima canzone che ho ascoltato e mi ha colpito è stata Sally di Vasco Rossi. Ero sul pullman scolastico per andare in gita, e mi ricordo l’effetto dirompente. Non so, c’era un prima e un dopo aver ascoltato quel pezzo musicale. Non accade tante volte, nella vita. E non sai, non saprai mai, perché».
Com’era Elodie negli anni delle gite scolastiche? «Al liceo volevo solo diventare grande, ero stanca di essere adolescente. L’adolescenza non l’ho vissuta con rispetto, l’ho detestata moltissimo. A scuola ero rispettata perché ero molto attenta agli altri, molto protettiva anche nei confronti della classe, dei professori che amavo. Però un po’ spaventavo perché ero molto aggressiva, ho sempre esposto i miei pensieri con molta veemenza. Diciamo che non lasciavo correre e le cose le dicevo in modo abbastanza diretto».
Le chiedo quando si è resa conto di essere bella. Perché Elodie è bella: «La bellezza è molto legata al modo in cui mi sento come donna, a come cammino per strada, a quanto sono orgogliosa di me, quanto mi piaccio. Ci sono stati momenti in cui mi sono piaciuta molto: al liceo mi sentivo bellissima perché mi piacevo io, mi piaceva il mio carattere, mi sembrava di avere personalità e questo mi faceva sentire bella. Poi ho avuto momenti in cui sono stata più triste, a vent’anni, mi sono rasata, ho pensato che fossi troppo legata all’estetica, al voler sembrare bella e quindi ho cercato di spostare lo sguardo degli altri all’interno di me. Per alcuni anni mi sono disinteressata del mio aspetto. Ora invece lo curo molto, perché sono anche più equilibrata. Mi piaccio esteticamente perché mi piaccio anche io. Penso di essere una brava persona. E in più sono vanitosa, mi piace, in questo momento della mia vita. Mi diverte anche essere leggera».
Le racconto di aver visto un tweet di una ragazza che ha scritto: «Oggi mi sono svegliata carina, poi ho visto Elodie...».
«Scherzano... È evidente che io sono una delle artiste italiane che gioca di più sulla fisicità, anche sulla sensualità. Spingo molto su quel linguaggio che non è il mio linguaggio quotidiano. Quello è il mio alter ego».
Trattengo, quando il collegamento si spegne, l’immagine di una persona fragile e intensa. Mi viene in mente una frase scritta proprio da Hans Christian Andersen, quello del Quartaccio: «Limitarsi a vivere non è abbastanza. C’è bisogno anche del sole, della libertà e di un piccolo fiore».