La Lettura, 27 marzo 2022
Renato Carpentieri fa il boss
In un anno imprecisato, in una Metropolis indefinita, vive Doc, uno scienziato famoso che, a causa della crisi economica, viene buttato sul lastrico dalla sua azienda. Senza prospettive per ritrovare una collocazione sociale, è costretto a lavorare per Boss, un anziano capomafia, per il quale inventa una macchina capace di dissolvere cadaveri: il necrodializzatore. Grazie a questa invenzione, gli affari vanno a gonfie vele, ma tra Doc e Boss si inserisce Cop, il capo della polizia.
Renato Carpentieri, 79 anni il prossimo 2 aprile, porta in scena Il complice, commedia di Friedrich Dürrenmatt, di cui è interprete, nel ruolo di Boss, e regista, con Salvatore D’Onofrio (Doc) e Giovanni Moschella (Cop). Lo spettacolo debutta in prima nazionale al Teatro San Ferdinando di Napoli dal 31 marzo al 10 aprile. «È un testo del 1977, che non mi pare, o almeno non ricordo che sia mai stato rappresentato in Italia – esordisce l’attore —. Un’allegoria grottesca, che mi fa venire in mente i quadri di Hieronymus Bosch. Lo stesso autore si definisce il commediografo più truce che ci sia e aggiunge che la nostra è un’epoca del grottesco e della caricatura».
Perché ha deciso di rappresentare quest’opera?
«Ci penso almeno da una ventina d’anni. È un’opera che mi perseguita, perché pur essendo stata scritta molto tempo fa, mi pare costantemente attuale e ora me ne sono, diciamo così, appropriato, firmando anche la regia. È impregnata di un umorismo che diventa ferocia, a cominciare dal fatto che uno scienziato si unisca a un malavitoso, creando una macchina che scioglie i cadaveri. In altri termini Doc, con la sua invenzione, riesce a dare luogo al delitto perfetto: non esistendo più la salma, non esiste più nemmeno il crimine».
Spieghiamo meglio i personaggi.
«In una città inventata, che io ho ambientato in un prossimo futuro, i personaggi sono dei simboli che oltrepassano la realtà, rispetto al falso realismo. Doc, autorevole biologo, perde il lavoro, viene inabissato in un magazzino sottoterra e, per guadagnarsi da vivere, accetta di fare il tassista. Grazie a questo mestiere conosce Boss, esponente di un’anonima-assassini che, nei suoi sporchi affari, ha la necessità di sbarazzarsi dei cadaveri, quindi trova in Doc un valido collaboratore e creano insieme una ditta-omicidi. Fra l’altro il mio personaggio, pur essendo un tipo potente e senza scrupoli, è messo male con la salute, avendo il cuore piuttosto scassato...».
Un boss in decadenza?
«In assoluto declino, con la consapevolezza che, scomparso lui, non ci saranno più capimafia uguali. Boss rappresenta una rotella su cui gira il mondo, infatti è molto rispettoso delle istituzioni: le sue vittime non sono mai i protagonisti della politica, del governo...».
E Cop?
«È un cercatore di giustizia. Si intrufola nella ditta per scoprire la rete di connivenze, ma ne rimarrà schiacciato e il controllo dell’intrigo passerà alle alte sfere dell’ordine costituito».
Il complice del titolo chi è?
«Lo sono tutti. La complicità di Doc, che è stato scartato dal mondo produttivo, consiste nella sua accettazione della criminalità. Boss è complice di un mondo orribile, basato sulla violenza più inaudita. Cop sembrerebbe l’unico a non rendersi complice e, infiltrandosi nella “banda”, il suo unico scopo è arrestare il mafioso, però alla fine capisce che, in quella situazione, è impossibile affermare le regole della giustizia e, di fatto, diventa egli stesso complice del reato».
Impegnato in teatro, è molto presente anche nel cinema. Ora, nel ruolo dello zio Alfredo, recita in «È stata la mano di Dio» in lizza stanotte agli Oscar per il miglior film internazionale.
«Comunque vada, sono molto contento per Paolo Sorrentino, ho lavorato benissimo con lui. E, comunque, in generale sono sempre stato fortunato con i registi cinematografici, primo fra tutti Gianni Amelio, con cui ho debuttato sul grande schermo nel 1990, per caso».
Per caso?
«Mi fece fare un provino per Porte aperte, senza dirmi che si trattava di un provino: andò bene e mi scritturò, poi mi ha scelto per altri film. Devo sempre ringraziarlo per la “porta”, è proprio il caso di dire, che mi ha aperto».
Lei ha lavorato con tanti grandi registi, dai Fratelli Taviani a Mario Martone, da Nanni Moretti a Gabriele Salvatores, Roberto Andò...
«Ho sempre potuto scegliere film che avevano un’attinenza con l’esperienza teatrale. Però sento il teatro come un luogo di libertà assoluta, rispetto al cinema».
Perché?
«Perché le produzioni cinematografiche hanno costi maggiori e impongono molti lacci economici. In teatro si guadagna meno: è di nicchia, più aperto alla libera interpretazione e meno soggetto a costrizioni finanziarie. Inoltre, ha un pubblico diverso, più consapevole; in palcoscenico si possono dire cose che, magari, al cinema o, peggio, in tv verrebbero censurate, risulterebbero sgradite. Insomma, è più faticoso, soprattutto per me che ho una tarda età, ma mi regala maggiori soddisfazioni».
Progetti?
«Penso spesso a un personaggio che mi sarebbe piaciuto interpretare, Galileo, però forse ora sono troppo vecchio... oppure no? Vedremo».
Un’ultima domanda sul «complice»... In questa Europa in guerra, chi sono i complici di chi?
«Forse siamo un po’ complici di Putin?».