La Lettura, 27 marzo 2022
Intervista a Andreï Makine
«L’Urss strombazzava l’unità indefettibile di tutte le etnie che la componevano e le velleità centrifughe scatenavano sempre un vigoroso richiamo all’ordine. E, molto logicamente, una punizione severa: alcuni armeni (mariti, figli, fratelli), colpevoli di dissenso, erano stati dunque arrestati e trasferiti a 5 mila chilometri dal Caucaso, il che permetteva di prevenire l’indulgenza che avrebbe potuto manifestare la giustizia della loro terra d’origine». È così, a causa di un riflesso imperialista che evidentemente non ha mai abbandonato Mosca, che Andreï Makine intorno ai 13 anni conobbe Vardan, L’amico armeno del bellissimo romanzo autobiografico pubblicato in Italia da La nave di Teseo.
Nato in Siberia centrale 64 anni fa, Makine è cresciuto in un orfanotrofio, assieme a Vardan, prima di rifugiarsi in Francia nel 1987, a ridosso del crollo dell’Unione Sovietica. Premio Goncourt 1995 per Il testamento francese (Einaudi), naturalizzato nel 1996, immortale dell’Académie Française nel 2016, mercoledì 30 marzo in una cerimonia all’Ambasciata d’Italia a Parigi Makine consegnerà la spada di accademico di Francia a Maurizio Serra, il diplomatico e scrittore italiano eletto a sua volta all’Académie. «La Lettura» ha incontrato Makine nell’albergo a due passi dalla sua casa editrice parigina, Grasset.
Nel romanzo lei lamenta le vite «sacrificate sotto l’ascia di coloro che fanno la storia».
«Mi riferivo agli armeni, l’attualità ha finito per raggiungermi. Pensavo a questo romanzo da 10, 15 anni, il destino degli armeni mi ha sempre commosso a partire da quell’incontro in Siberia, quando conobbi Vardan. Fui colpito dalla sua nobiltà: una sera aiutò a rialzarsi una prostituta derisa per strada. E mi misi a frequentare il “regno d’Armenia”, il quartiere dove vivevano ai margini della città, e dove conobbi sua madre Chamiram, la bellissima sorella Gulizar, il vecchio Sarven. Vardan era malato e gracile, io ebbi l’istinto di proteggerlo dai bulli».
Il romanzo è una commovente storia di amicizia e anche un affresco del mondo di etnie che popolavano l’Unione Sovietica.
«Andare nel quartiere degli armeni era come visitare un Paese straniero, erano stati deportati in Siberia dal Caucaso e avevano mantenuto i loro costumi. Un esotismo straordinario, ai miei occhi, e Vardan era capace di osservazioni che mi stupivano, in quell’età di passaggio tra infanzia e adolescenza: parlava del cielo, diceva di toccarlo, perché alla nostra altezza, anzi sotto le scarpe, c’è la stessa aria che si trova in mezzo alle nuvole».
Che cosa la attirava tanto in Vardan?
«C’era l’aspetto esotico, certo, ma Vardan mi conquistò perché pur essendo debole e malato aveva l’istinto di occuparsi degli altri, magari messi peggio di lui, come quella prostituta che volle aiutare a tornare a casa, un gesto che io non avrei mai potuto compiere. Vardan aveva la capacità di creare il suo mondo, ai miei occhi rappresentava e rappresenta ancora l’autonomia dell’essere umano. Siamo troppo frammentati oggi, internet e i social media ci connettono, in realtà ci dividono in tante parti, le nostre sono vite spezzate. Vardan invece era integro, un essere umano pieno, capace di creare il proprio universo. Ero affascinato dal fatto che un ragazzino di quell’età potesse avere lo sguardo di un filosofo, di un poeta. Grazie a Vardan ho conosciuto la storia e la civiltà dell’Armenia, antichissima, che esisteva prima ancora della Russia, della Turchia o della Francia».
Lei racconta di essere tornato nei luoghi della vostra infanzia, è una parte nostalgica molto toccante.
«Credo di avere capito meglio Vardan, finalmente. Lui era malato e viveva in attesa della morte, un po’ come può capitare a me adesso. Da giovani si è predatori, si vuole conquistare la vita, amare, provare piacere. Con l’età, capisco meglio il carattere e la profondità del mio amico».
Che cosa pensa dei giorni che stiamo vivendo, con la guerra in Europa?
«Sono molto triste, penso ai bambini, ai vostri bambini. Io non ho figli, mi sento disimpegnato, per quel che mi riguarda se l’umanità è talmente stupida forse si merita di scomparire. Ma mi dispiace per le prossime generazioni, siamo come un Titanic che sta affondando, e invece di metterci in salvo pensiamo a fare la guerra a bordo del Titanic. Mi torna in mente una lettera che scrissi da giovane a François Mitterrand».
Che cosa scrisse al presidente francese Mitterrand?
«Nell’incoscienza della gioventù ho preso carta e penna e gli ho dato un consiglio, che a distanza di decenni si rivela poi non così strampalato. Il muro di Berlino era appena caduto, io ero arrivato da poco in Francia, e scrissi a Mitterrand che bisognava cogliere l’occasione del crollo dell’Urss per fare dell’Europa un santuario privo di armi. Troppe etnie, troppi contrasti, troppi confini contestati, era meglio creare una grande area disarmata. Non ero nessuno, Mitterrand non mi rispose, chissà se ha mai letto la mia lettera».
Come ha osservato l’evoluzione della Russia, da rifugiato in Francia?
«Della vita durante il regime sovietico mi è mancata una cosa. Non certo il totalitarismo e i gulag, questo è ovvio. L’idea dell’uomo nuovo ha provocato tragedie ma tra un dramma e l’altro, nella vita quotidiana, nei rapporti tra le persone, era molto presente il valore dell’aiutarsi. Ci si sentiva più compagni che concorrenti. Poi i russi hanno sognato di imitare gli aspetti positivi dell’Occidente ma sono caduti nella solita trappola descritta da Madame de Staël».
Quale trappola?
«Madame de Staël diceva che i russi non raggiungono mai il loro obiettivo perché l’oltrepassano, vanno troppo avanti, non riescono a fermarsi in tempo. Speravamo in un capitalismo ragionevole, una borghesia con protezioni sociali per tutti, un po’ come in Francia. Invece abbiamo il capitalismo delle manie di grandezza degli oligarchi, come quello che si è fatto costruire una copia, appena più piccola, del palazzo di Caterina II, fuori San Pietroburgo».
Ha mai conosciuto Putin?
«Sì, nel 2001 il presidente Jacques Chirac mi chiese di far parte della delegazione in occasione della sua visita a Mosca. Parlai della mia idea dei santuari della pace in Europa sia a Chirac sia a Putin, non se ne fece niente. Chirac andò a pescare con Putin che all’epoca era come un’altra persona. Anche la voce era diversa, una voce flebile, sembrava timido e ossessionato dalla voglia di essere come gli europei. Credo che la sua passione per Silvio Berlusconi dipendesse anche da questo. Adesso tutto è cambiato».