La Lettura, 27 marzo 2022
Lo scienziato che scruta nell’intimità del cervello
Valentino Braitenberg, neuroanatomico e cibernetico, indimenticato maestro, ebbe a notare in un’occasione: «Io confesso (pur con tutta l’insicurezza necessaria in un tal genere di valutazione) che suddivido le persone con cui ho a che fare in tre categorie: quelle che ritengo più intelligenti di me, altre rispetto alle quali ho l’impressione di essere più intelligente io, e i rimanenti, a proposito dei quali la questione della comparazione d’intelligenza non si pone affatto. Moshe Abeles, Jochen von Below, Francis Crick – potrei enumerarne uno per ogni lettera dell’alfabeto – mi hanno in certe circostanze stupefatto, come scienziati, con prestazioni di cui non mi sento all’altezza». (Il cervello e le idee, Garzanti, 1989).
Karl Deisseroth appartiene a questa schiatta di scienziati che ti lasciano stupefatto con prestazioni di cui non ti senti all’altezza. Nell’arco della sua vita ancora giovane (cinquant’anni appena compiuti) ha regalato ai topografi del cervello due strumenti miracolosi, l’optogenetica e Clarity, e adesso ripercorre in un libro alcuni casi clinici che ha incontrato nella sua attività di psichiatra, raccontando come siano stati d’ispirazione per la sua vita scientifica.
Il cervello è normalmente opaco e per scrutarne la struttura interna gli scienziati devono ridurlo a fettine sottili che vengono osservate al microscopio dopo particolari procedure di colorazione che ne rivelino i componenti. Clarity – acronimo che sta per Clear Lipid-exchanged Acrylamide-hybridized Rigid Imaging/Immunostaining/in situ-hybridization-compatible Tissue hYdrogel – consente di trasformare il cervello in una struttura trasparente sostituendovi le componenti lipidiche con gel che permette alla luce di passare liberamente. Il tessuto trasparente mantiene intatte le strutture interne, che possono essere rese visibili in maniera selettiva impiegando tecniche di fluorescenza; se ne ottiene una mappatura finissima, che permette di osservare dove si trovi un certo neurotrasmettitore o espresso un certo gene.
Con il secondo strumento, l’optogenetica, lo scandaglio del sistema nervoso arriva a legarsi direttamente all’esperienza clinica. Tra i casi narrati nel libro c’è quello di Mateo, che ha perduto in un tragico incidente la sua giovane compagna, sposata da appena un anno e incinta. Per evitare lo scontro con un furgone che ha invaso la sua corsia, Mateo effettua una brusca sterzata che conduce l’auto a schiantarsi prima sulla banchina spartitraffico e poi a rovesciarsi sopra un albero. Mateo è ossessionato dal ricordo dell’incidente e di un altro occorsogli anni prima, quando un procione gli attraversò la strada e lui decise, data la velocità dell’auto, di non sterzare. Rumina ansiosamente su quanto la sterzata sull’auto con la moglie sia stata eccessiva per bilanciare quella, non eseguita, che poteva salvare la vita alla bestiola. Mateo non riesce più a piangere, e si domanda perché.
I neuroscienziati sanno che una struttura annidata in profondità nel cervello, un’estensione dell’amigdala chiamata «nucleo del letto della stria terminale» rappresenta un’importante stazione di controllo dell’ansia. Da lì si diramano assoni che formano fibre nervose che giungono ad altre regioni del cervello. Prendendo a prestito un frammento di Dna da certe alghe verdi, che contiene le istruzioni per produrre una proteina attivata dalla luce, la canalrodopsina, Deisseroth con i suoi colleghi può attivare separatamente ciascuna di queste connessioni nel cervello degli animali. Funziona così: il gene dell’alga inizia a produrre nei neuroni la proteina canalrodopsina, e questa, quando è colpita dalla luce blu generata da un laser, che gli scienziati fanno arrivare nel cervello tramite fibre ottiche delle dimensioni di un capello, lascia entrare degli ioni con carica positiva, facendo sì che i neuroni si attivino e trasmettano i loro segnali.
La proteina canalrodopsina può essere associata a una proteina fluorescente gialla, così da tracciarne le posizioni. Gli assoni, i fili che si dipartono dai corpi cellulari dei neuroni e giungono alle diverse stazioni del cervello possono in questo modo essere seguiti nel loro tragitto. Quando la luce va a stimolare una di queste stazioni di approdo vi attiverà solo e soltanto i neuroni che ricevono una connessione assonale dalla stazione di partenza. La decostruzione dei differenti aspetti del comportamento nei termini dei circuiti a esso preposti può avere inizio.
Ci sono connessioni che dal nucleo del letto della stria terminale giungono al ponte di Varolio, un’importante struttura nel tronco del cervello. La stimolazione optogenetica del ponte condiziona solo e soltanto la frequenza respiratoria. Ciò che procura ansia non modifica però soltanto la frequenza respiratoria, ma determina anche la propensione a evitare il rischio. Un topo, ad esempio, eviterà accuratamente la zona centrale di un’arena aperta e ben illuminata, dove è più vulnerabile all’attacco dei predatori. Questo aspetto del comportamento è controllato da un’altra stazione, l’ipotalamo laterale, dove arrivano altri fili colorati di giallo dal nucleo del letto della stria terminale.
L’ansia ci fa respirare in affanno e ci induce a evitare certe situazioni, ma che dire della valenza negativa associata a uno stimolo ansiogeno? Questa può essere misurata in laboratorio dai test di preferenza di luogo, in cui un animale è lasciato libero di esplorare due camere simili, in una delle quali ha sperimentato un’intensa sensazione positiva (o negativa) mostrando in seguito di preferire (o di evitare) quella particolare camera. Né le regioni del ponte né quelle dell’ipotalamo laterale sembrano essere importanti per questo aspetto del comportamento che ci fa avvicinare al cuore di ciò che per gli esseri umani è l’esperienza soggettiva. I fili gialli che dal nucleo del letto della stria terminale arrivano a un’altra stazione profonda del cervello, l’area tegmentale ventrale, stimolati optogeneticamente rivelano la capacità di indurre, grazie al rilascio di dopamina, una valenza positiva o negativa, senza mostrare alcun effetto né sulla respirazione né sull’evitamento del rischio.
È straordinariamente soddisfacente questa decostruzione riduzionistica nella quale uno stato interno complesso, l’ansia, viene dissezionato in caratteristiche indipendenti associabili a precise connessioni fisiche, fasci di assoni che si proiettano attraverso il cervello con punti di partenza e di arrivo ben specificati. Ma la domanda cruciale che emerge è relativa all’esistenza stessa di una valenza che verrebbe assegnata agli eventi. Perché un determinato evento (stare in una certa camera) dovrebbe far sentire bene (o male)? Direte: per evitare o ricercare attivamente gli stimoli associati a quello stato. Certo, ma la dissociazione tra la via neuronale dell’evitamento del rischio e quella della valenza pone un dilemma: se il comportamento esplicito è già controllato in maniera appropriata in modo da evitare (o ricercare) un certo stato, qual è il motivo della preferenza, cioè della sensazione soggettiva mediata dall’attività nell’area tegmentale ventrale?
Quello che un organismo fa, i comportamenti messi in atto, produce esiti sufficienti per l’operare della selezione naturale, a che pro aggiungervi in soprannumero il modo in cui un animale si sente dentro? Eppure, nota Deisseroth, anche se sentirsi male sembra qualcosa di gratuito e fonte di inutili sofferenze, in psichiatria gran parte del disagio deriva esattamente dalla valenza soggettivamente esperita di stati quali l’ansia o la depressione.
Deisseroth propone che il sentirsi bene o male sia parte di una sorta di valuta universale, che il cervello adotta per stimare la positività e la negatività in modo astratto e nei contesti più disparati (dalla ricerca del cibo al sonno, dal sesso al giudizio morale). Se ciò possa rendere conto della natura e della funzione biologica del possedere esperienze soggettive è oscuro: la qualità delle esperienze appartiene ai diversi domini sensoriali, e così anche se giudico con identica valenza (positiva) il sapore del caffè che avverto in bocca e il tepore della tazzina che stringo tra le mani questo aspetto valutativo non esaurisce e non spiega la diversa qualità delle due esperienze.
Deisseroth ha rivelato in un’intervista che avrebbe voluto essere uno scrittore – il suo libro pare debba molto nell’ispirazione al Sistema periodico di Primo Levi, un autore da lui molto amato. Riflettere sui temi dell’esperienza soggettiva e della sofferenza psicologica a partire dall’attività professionale e clinica con i pazienti – come psichiatra prima che come ricercatore – è forse l’aspetto più notevole del libro, perché – Valentino Braitenberg non l’aveva notato, ma io ne sono convinto – essere intelligenti non è abbastanza, i grandi scienziati sono, prima di tutto, persone compassionevoli.