La Lettura, 27 marzo 2022
La rivoluzione della longevità
La lettura del rapporto dell’Onu del settembre 2021 dal titolo, non a caso contrassegnato da un formidabile punto interrogativo, Ageing populations: We are living longer lives, but are we healthier? («Popolazioni che invecchiano: viviamo più a lungo, ma siamo più in salute?»), ci lascia con due convinzioni. La prima: il rapporto non scioglie che in parte l’interrogativo se all’aumento della durata della vita si accompagna e in quale misura l’aumento della salute nelle età più avanzate. La seconda: che la devastation provocata dalla pandemia Covid-19 nella popolazione più anziana ha messo in evidenza tutti i limiti di una visione ultra-ottimistica del futuro della popolazione più anziana incardinata nelle teorie della compression of morbidity e del successful aging — che non c’è neppure bisogno di sintetizzare tant’è chiaro già dal nome il loro succo ultra-ottimistico – che sono venute maturando già dagli ultimi decenni dello scorso secolo.
Proprio la pandemia ha rappresentato la doccia gelata che sveglia tutti dai bei sogni a occhi aperti. I ricercatori hanno sbagliato nel (non saper) distinguere le aspirazioni dalla realtà, dice ancora il rapporto, che a proposito di pandemia cala una sorta di scure decapitatrice sull’azione pubblica che si è illusa di salvaguardare la salute degli anziani con le case di cura e con i servizi e hospice di lungodegenza, rivelatisi invece delle vere e proprie death trap, trappole di morte per gli anziani che vi si trovavano. Quella della qualità, oltre che della lunghezza, della vita che ancora aspetta/si prevede per gli anziani è questione che si dirama in due questioni di fondo. Viste le tendenze a un forte aumento della speranza di vita non solo alla nascita ma anche a 60 e più anni che hanno interessato i Paesi occidentali ma sempre di più anche gli altri – Africa inclusa, per quanto arrivata buon’ultima in questa corsa – la prima questione si concretizza nel valutare se non sia in atto un cambiamento di fondo dell’umana longevità piuttosto che una semplice transizione da una lunghissima fase di alta mortalità infantile a una di declino di quella mortalità che ha portato a un continuo aumento della speranza di vita. La seconda questione è se la speranza di vita in buona salute possa davvero crescere come e quanto la speranza di vita alla nascita o vita media. Dove questa seconda questione equivale a chiederci se l’aumento della durata della vita si accompagna o no a una salute più mediocre con un aumento di menomazioni e disabilità.
L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) taglia corto e afferma al riguardo che «l’attesa di salute è più importane dell’attesa di vita». Tradotto: la «qualità» degli anni di vita guadagnati è la bussola che deve guidare gli sforzi per aumentare la longevità delle persone. Insomma: non basta il declino della mortalità anche alle età più avanzate, occorre che questo declino sia accompagnato dalla stessa contrazione delle malattie croniche invalidanti e degli stati di menomazione, oltre che dal riorientamento dei servizi socio-sanitari capace di tener dietro all’aumento della popolazione delle età più alte della vita anche e soprattutto in termini di qualità della vita che ancora resta da vivere. Vaste programme.
Il fatto è che non sappiamo neppure così bene come vanno le cose al riguardo. Il primo problema, quando ci avventuriamo infatti in valutazioni parecchio sofisticate come questa, è la disponibilità dei dati. In altre parole: non sappiamo bene come stanno le cose perché mancano i dati. Quando si deve scendere più in dettaglio, vale a dire dalla vita media o speranza di vita alla nascita al grado di salute che accompagna questa speranza di vita (con particolare riguardo agli ultimi tratti di questa vita), ecco che la platea dei Paesi che possono fornire informazioni non fa che restringersi e a mancare all’appello non sono soltanto una manciata di Stati africani subsahariani ma l’Africa pressoché al gran completo, i Paesi dell’Europa dell’Est, del Medio Oriente, dell’America Latina, la stessa India. Difficile tracciare mappe e azzardare giudizi in mezzo a tutta questa penuria. E infatti il rapporto fornisce una valutazione precisa della speranza di vita autonoma alla nascita di circa 70 anni e una speranza di vita autonoma calcolata all’età di 60 anni che arriva fino a 82 anni, ma solo per gli Stati Uniti. Per un confronto, lo studio preferisce concentrarsi su tre Paesi di tre continenti diversi ma dalle statistiche del tutto attendibili: gli Stati Uniti, il Giappone, la Francia. Uniti da che cosa è presto detto: alti livelli di sviluppo e di reddito. Ma anche dalla conclusione più interessante di tutto il rapporto che suona pressappoco in questi termini: «L’incremento della speranza di vita nelle ultime decadi si è accompagnato in Europa, Nord America e Asia a un proporzionale incremento nella speranza di vita senza disabilità.
La proporzione tra le due entità – speranza di vita alla nascita senza disabilità e speranza di vita alla nascita – rimane costante». Ma attenzione, mentre in Giappone la speranza di vita autonoma rappresenta quasi il 90% della speranza di vita alla nascita, questa proporzione scende negli Usa all’80% e addirittura ben sotto l’80% nella Francia. Perché tutta questa disparità tra la Francia e il Giappone a favore di quest’ultimo? Il rapporto non si inoltra in questo interrogativo.
Rimane la conclusione fondamentale: all’aumento della longevità ha corrisposto, in proporzione, l’aumento della durata della vita autonoma. Possiamo pensare di estenderla al mondo intero? Certamente nei Paesi con statistiche attendibili, pressoché tutti occidentali, tra cui l’Italia, è stato possibile accertare una «compressione» della disabilità misurata sia alla nascita che a 65 anni. In altre parole: magari la vita pienamente autonoma non cresce quanto cresce la durata della vita, ma anch’essa non fa che aumentare. E degli altri Paesi che si può dire? Che si sta cercando di capire come vanno le cose al riguardo, non molto di più, pur se il fatto che Stati Uniti, Giappone e Francia – e altri Paesi ancora – abbiano registrato quella positiva corrispondenza tra le due grandezze fa ben sperare anche per loro.
Questa conclusione porta, peraltro, fascine alla teoria del cosiddetto «equilibrio dinamico» tra longevità e salute nelle popolazioni del mondo. La teoria in parole povere sostiene che gli aggiustamenti sono reciproci e vicendevoli e ben difficilmente si avrà longevità alta con salute mediocre e viceversa alta salute e mediocre longevità nelle comunità, Paesi, aree del mondo, e che sempre i progressi da una parte finiranno per riverberarsi dall’altra parte in una continua interrelazione. Teoria che si colloca a metà strada tra scenari pessimistici che vedono una prevalenza crescente di malattie croniche e disabilitanti, nonostante la riduzione della loro mortalità, e scenari ottimistici che vedono le malattie croniche e degenerative venire sempre più posposte e confinate nelle ultimissime porzioni della vita grazie a più alti livelli di educazione, migliori stili e condizioni di vita, progressi della medicina e scoperte scientifiche. E a quest’ultimo riguardo il Rapporto è piuttosto categorico: l’aumento della speranza di vita o vita media, per essere così ampio, lungo e continuo non può essere imputato solo e neppure principalmente ai progressi della medicina e alle scoperte scientifiche. Affermazione che equivale a dire che c’è stata, e c’è, una autentica rivoluzione della mortalità anche delle età adulte e senili, e non della sola mortalità infantile.
Si raggiungono età della vita sempre più alte, sempre più alte proporzioni di persone campano più di 80 e 90 e fino a 100 anni e oltre. Dal 1960 i guadagni della durata della vita delle persone di oltre 50 anni procedono quasi allo stesso ritmo dei guadagni della speranza di vita alla nascita (dal 1950 in Europa, a esclusione di quella dell’Est, tra i 2,7 e i 3 anni in più ogni 10 anni di calendario). Difficile non vedere in tutto questo, per tornare da dove siamo partiti, che è in atto un cambiamento di fondo dell’umana longevità. Cambiamento che credevamo inarrestabile. Prima che arrivasse la pandemia di coronavirus a ridefinire i confini della durata e della qualità della vita. E non dei soli anziani. Anche se abbiamo pur sempre, se non la certezza, la speranza che il Covid-19 rappresenti solo una parentesi, chiusa la quale si possa riprendere il cammino, se non proprio la corsa della longevità.