la Repubblica, 24 marzo 2022
Intervista a Diego Abatantuono - su "Si potrebbe andare tutti al mio funerale" (Einaudi)
Abatantuono 8 e ½. Un girotondo tra feste e ricordi, morti e vivi, affetti e rimpianti, confessioni e tenerezze. L’Attila di una vita cinematografica fa, il Babbo Natale di ieri, apre come mai aveva fatto prima le porte della sua vita, raccontandosi con sincerità e ironia, orgoglio e inaspettata dolcezza. Si potrebbe andare tutti al mio funerale è il libro scritto con l’amico Giorgio Terruzzi, edito da Einaudi. Un racconto in soggettiva che parte da uno strano risveglio, dopo un sonno che potrebbe essere quello della morte, nella casa invasa di amici e da schegge di passato. Un carosello in cui si tengono per mano i personaggi del suo film lungo 66 anni, quelli celebri e gli sconosciuti al pubblico, Jannacci (naturalmente) e Marlon Brando, Mastroianni e l’amata moglie Giulia, Biobà il camionista e Francis Turatello, i Gatti di vicolo Miracoli. E Gassman, Scola, Salvatores, Villaggio...
L’intervista, al telefono, è dal casale nelle campagne di Riccione che è la location della sua storia. Abatantuono cerca il posto più comodo, al sole. Ha molto da raccontare.
Come nasce questo libro?
I suoi figli raccontano la disavventura con lo tsunami alle Maldive e il loro papà in difficoltà.
"Io nella vita ho avuto grandi fortune e tante microsfighe. Sono nato al Giambellino, poco studio, amici finiti male, eppure sono stato uno slalomista e ho colto tutti i vantaggi che ho incontrato. Tra le microsfighe ho avuto di trovarmi con la famiglia alle Maldive, vedere l’acqua ritirarsi aspettando, sbagliando, di essere travolti dall’acqua. Quando ha invaso la stanza mi sono messo riempire le valigie di acqua e coca cola per poi scappare sul tetto. Ma pesava e mi è venuto il colpo della strega. Cercavo di non far trapelare la paura ai miei ragazzi, ho scoperto che non c’ero riuscito".
Nel libro parla anche delle fatiche di sua mamma guardarobiera al Derby e suo papà che lavorava poco al negozio di modellini e la tradiva.
"Sì. Allora sembrava normale, anche se lei avesse reagito nessuno l’avrebbe sostenuta, neanche i suoi genitori. Io vedevo che era sbagliato, ma anche come lei cercava di trarre gioia da ogni momento senza farmi pesare nulla. Lo loro è stata una generazione che ha imparato a vivere da separati in casa. Lo hanno fatto per me, per pigrizia, per l’immagine. Ma tra loro c’era anche complicità. Appena ho potuto li ho tolti dal lavoro, li ho fatti venire in questa casa quando avevano 52 anni, molto più giovani di me adesso".
"I capelli ricci sono stati una delle grandi tragedie della mia adolescenza. C’erano quelli che davano il colpetto con la testa e buttavano giù il ciuffo, se non buttavi il ciuffo valevi poco. Passavo interi pomeriggi con la piastra. Quando mi sentivo figo uscivo, ma viaggiavo in bus e a Milano il clima non concedeva possibilità. Una volta mentre sul bus aspettavo che salisse la ragazza con cui dovevo andare a ballare mi vidi riflesso, i capelli dritti in un’orrida calotta. Orribili. Sono sceso dal bus e tornato a casa, lei non l’ho vista mai più".
Il Derby allora era un microcosmo di politici, artisti, criminali. Colpisce il racconto di quando Fancis Turatello le affidò la mamma.
"Non c’è nulla di inventato, anzi qualcosa ho mitigato per non sembrare poco credibile. Avevamo tutti intorno ai vent’anni. C’erano Teo Teocoli, Jannacci, Faletti, Porcaro, Di Francesco...c’era un’allegria e una voglia di scherzare senza freni. Mi si presenta Francis Turatello con una signora che poteva essere la mia nonnina ma era sua madre e me l’affida. Io dovevo occuparmi delle luci, ma ero terrorizzato che entrasse qualcuno a dire parolacce, che la scambiassero per un comico travestito e le dessero una manata. Volevo metter un cartello ma avrei rischiato peggio. Non so come siamo sopravvissuti".
Per la prima volta nel libro parla apertamente di quando faceva uso di droga: ’Pippavamo quasi tutti a Milano’...
"Non ho mai assunto eroina, per nessuna ragione, attorno a me al Giambellino avevo visto morire troppa gente. Ho sempre fatto in modo di fermarmi in anticipo, mai sono arrivato sull’orlo del baratro, ho sempre conosciuto me stesso e i miei limiti. Per un momento fu di moda il popper, una fialetta che credo servisse per rianimare le persone e a noi provocava un riso irrefrenabile. Ricordo una notte in diciotto dentro lo stanzino delle luci, uno sull’altro, incapaci di fermare le risate. Sono cose che puoi fare poche volte e lo stesso accadde con la cocaina. Fu una fase di passaggio che mi aiutò a distinguere".
Nel libro c’è una straordinaria dichiarazione d’amore a sua moglie Giulia. Cosa ha detto lei?
"Niente. Ma non ci siamo messi lì a parlarne, lei sa come la penso".
E la sua passione per i bambini.
"Sono così. Ho sempre pensato che non avrei avuto figli quando ero giovane, ero convinto che il mondo sarebbe diventato una merda. Ho azzeccato ma solo in parte. Quando trovi una donna a cui vuoi bene non bastano le tue scelte. E sapevo che mi sarei trovato molto coinvolto. Così è stato. Ma ho trovato un equilibrio, quando è nata Marta non ho rinunciato ad avere trent’anni, quando sono nati gli altri figli non ho rinunciato ai 40. Ma mai avrei avrei fatto qualcosa che potesse danneggiarli. Non ho avuto come i miei genitori un rapporto così, non ricordo da piccolo gli abbracci, il trasporto che ho io per i miei figli. Nel prossimo film, Natale all’improvviso di Francesco Patierno, recito con tanti bambini, Frassica e il mago Forest che mi piacciono molto e con cui ho lavorato poco".
’Regalo di Natale’ di Avati è arrivato nel momento più difficile della sua carriera.
"Va contestualizzato. Il personaggio di Eccezzziunale veramente, il milanese "al ciento pe ciento" è perfettamente attuale, parla dei migranti africani di oggi, parla dei leghisti, parla di chi è talmente ansioso di integrarsi che diventa razzista verso i simili. Un personaggio che funzionava. Ma mentre Zalone, formidabile, ha saputo amministrare i suoi film, a me ne fecero fare 12 in due anni. E poi ci fu il tradimento, le tasse non pagate, i soldi rubati. Una cosa violenta che mi ha sderenato. Il personaggio non l’ho fatto più. È arrivata la chiamata di Pupi Avati, che aveva prima chiamato Banfi. Non penso che il film sarebbe stato lo stesso, con tutto l’affetto. Viviamo in un’epoca in cui tutto si rivaluta. Banfi è bravo e un uomo buonissimo, ma non si può sentire parlare di Tognazzi e Villaggio e Pozzetto e Banfi come fosse lo stesso cinema. E sta per passare questa roba qui".
Dopo questo libro che le viene voglia di fare?
"Ormai vivo il quotidiano, con storie esterne che purtroppo superano le mie. Ma ci tenevo a un finale aperto perché so che mi ricapiterà di incontrare Beppe Viola e Jannacci, mamma e papà e tutti quelli che mi mancano tanto. Ci penso poco al libro, sennò mi commuovo".