Robinson, 25 marzo 2022
Intervista ad Angelo Branduardi - su "Confessioni di un malandrino. Autobiografia di un cantore del mondo" (Baldini+Castoldi)
Di Angelo Branduardi non si sa niente o quasi. Il più schivo e ’anomalo’, come dice lui stesso, tra i nostri artisti, non ha mai amato l’idea di essere un personaggio pubblico; al contrario, al massimo del successo, ha fatto di tutto per sparire. Il 31 marzo uscirà finalmente la sua prima biografia, intitolata come un suo famoso brano, Confessioni di un malandrino, realizzata con il musicista e scrittore Fabio Zuffanti e, per l’occasione, ci ha svelato un po’ di cose abbastanza inaspettate.
La prima volta che l’ho vista suonare è stato nel 1979 in occasione del concerto per Demetrio Stratos: quegli artisti, praticamente tutta la scena italiana di allora, quel pubblico sterminato, più di 60mila persone, e così unito, sia pure in un momento di dolore, facevano sembrare che un mondo migliore fosse possibile e invece oggi ci troviamo in una specie di incubo…
"In quell’idea abbiamo creduto in tanti negli anni Settanta: c’era un enorme entusiasmo e grandissima creatività. Poi, purtroppo, le cose si sono evolute in peggio e si è finiti con i cosiddetti "anni di piombo" ma in comunque da lì nacquero moltissimi talenti e non solo nella musica, ma nell’arte in genere. Forse è stato un momento irripetibile. Di sicuro quello di oggi con questa guerra alle porte dell’Europa è un momento che non avrei mai pensato di vivere. Speriamo che si arrivi il prima possibile a una soluzione".
Il panorama musicale e di performance di quel concerto era immenso per qualità e per varietà: da lei che cantava Confessioni di un malandrino dal poeta russo Esénin da lei molto amato, agli Skiantos che, a loro volta, invece di suonare declamarono poesie ’demenziali’.
"Ero molto amico di Freak Antoni degli Skiantos: tanti gli devono molto".
Non credevo apprezzasse anche il ’rock demenziale’ o punk che dir si voglia.
"Mi piacevano anche i Ramones se è per questo: avevano un grande senso della melodia".
Anche lei, credo e fin dalla più tenera età.
"In effetti certe cose mi venivano facili ma allora non me ne rendevo conto".
Partendo dall’inizio lei è nato a Cuggiono in Lombardia ma poco tempo dopo si è trasferito a Genova e abitava in Via della Maddalena.
"Numero 19 interno 5".
Ci sono passato di recente quando, qualche tempo fa, sono andato a Genova per intervistare Gino Paoli, e mentre la famosa Via del Campo cantata da De André e la famigerata via Prè sono oggi quasi ’normalizzate’, Via della Maddalena mantiene la sua aura decadente con le prostitute, i ’tipi strani’ e il resto, come sempre lui cantava ne La città vecchia.
"Io da bambino ero un po’ il Piccolo Principe di quelle signore: mi piaceva tantissimo vivere lì anche se non avevamo neanche l’acqua corrente e c’erano tutti i muri cosparsi di polvere bianca contro gli scarafaggi. Mia madre quando usciva non chiudeva mai la porta a chiave: c’era molta solidarietà e anche se eravamo molto poveri c’era un senso della dignità molto forte. Dico sempre che non potevo avere un’infanzia migliore".
Ha mai parlato con De André di questa sua infanzia?
"In realtà non è mai capitato di parlare di questo, parlavamo di tutt’altro: di musica, di vita, di politica".
Che tipo di persona era?
"Era un grande poeta. Ho assistito anche al suo ultimo concerto al Folkest: lui suonava il giorno prima di me. Fu un momento bellissimo dove fece una grande figura anche suo figlio Cristiano che è davvero un bravo polistrumentista".
Anche De André a un certo punto si è interessato alle sonorità diciamo ’etniche’ su cui lei invece lavora dall’inizio della sua carriera.
"In effetti già nel 75, il mio album La luna è pieno di riferimenti a quella che poi sarebbe stata chiamata ’world music’ ma spesso i precursori non vengono capiti infatti la critica, con cui ho sempre avuto un rapporto abbastanza strano, mi ha sempre definito un ’anomalo’. Oggi lo rivendico con fierezza: dopo dischi di grande successo ho fatto cose che hanno venduto molto meno perché ho sempre seguito la ’visione’, l’istinto, il mio piacere non lo soluzione commerciale, il modo per guadagnare soldi. Anzi, quando hanno voluto fare di me un idolo rock io ho proprio voluto cambiare strada".
Come ha fatto?
"Mi ricordo anche il momento preciso: fu alla Fete de l’Humanité, mi sembra fosse il 1980, 120mila paganti più molti altri imboscati: un palco enorme, una corsa all’isteria, luci gigantesche. Ho capito che non era la mia tazza di tè e sono tornato ai miei amati teatri, alle cose più sommesse. Ho capito anche che quella cosa ha molti lati negativi, ti porta alla megalomania così per il resto della mia vita mi sono dedicato ad altro, anche a cose assurde: come quando ho fatto un album mettendo in musica dieci poesie di Yeats adattate da mia moglie Luisa. quell’album rimane uno dei lavori a me più caro e e sono orgoglioso del fatto che è stato apprezzato anche dai figli del poeta, come mi hanno scritto dopo. E pensare che avevano impedito a Van Morrison di fare una cosa simile!".
Comunque non è che dopo il grande successo lei ha fatto cose esattamente di nicchia: penso a State buoni se potete: una colonna sonora bellissima e lei recitò anche una parte nel film.
"Sì, fu una grande soddisfazione, vinsi anche diversi premi e la gente se lo ricorda anche se il regista, Luigi Magni, mi disse come musicista sei bravissimo ma come attore... meglio lasciar perdere. Così mi limitai a interpretare alcuni brani".
Tra cui il bellissimo "Vanità di vanità", rimasto nella memoria di tutti. Anche del disco su San Francesco si parlò molto...
"L’infinitamente piccolo: nessuno ci credeva. Me lo fecero fare perché in precedenza avevo portato tante vendite, e così lo accettarono come si accetta una follia ma mi ricordo che un dirigente disse che al debutto, che era a giugno, avrei avuto venti clienti paganti in costume da bagno. Invece il teatro Smeraldo era pieno e fuori c’era così tanta gente che sono dovuti intervenire i carabinieri!".
Lei ha dedicato un album a San Francesco e un altro, Il cammino dell’anima, alla mistica Ildegarda di Bingen. Ma lei è credente?
"Questa è una domanda a cui non vorrei rispondere e non saprei neppure farlo".
È già una risposta.
"Per essere del tutto onesto dovrei dire: a volte sì e a volte no. È un cammino dell’anima appunto. Sicuramente non è un’autostrada quella che percorro ma una traiettoria piena di curve, è una cosa molto privata. Di certo sono un uomo con un’anima, una spiritualità e credo che questo si veda dalla musica che faccio".
In particolare credo, da come suona, si esplichi anche nel suo rapporto con il violino.
"Oggi non suono bene come una volta ma è anche normale: l’anno e mezzo in cui non ho suonato ha portato via molto ma pian piano sto recuperando. Con il violino si ha un rapporto fisico: è l’anima e la corda, non c’è mediazione, non è come con il pianoforte per cui schiacci un tasto e c’è un martello. Il violino è un prolungamento del corpo: la gente pensa che venga tenuto su dalla mano, invece sono il mento e la clavicola a farlo ed è un modo di essere posseduti e di possedere".
Come mai non ha suonato per tanto tempo?
"È stato per quello che io chiamo ’Sole Oscuro’ e altri depressione: ero indeciso se raccontarlo o meno ma siccome questa è e sarà la mia unica biografia, ho pensato che fosse giusto parlare anche delle cose tristi. Nell’arte c’è il paradiso e l’inferno: non so spiegare il perché. Così nei primi mesi della pandemia questa cosa che ero riuscito quasi sempre a tenere a bada si è acuita".
E neanche la musica era un aiuto?
"Assolutamente no. Ho dovuto poi recuperare l’agilità, la memoria muscolare e alla mia età non è facile ma finalmente ci sono quasi riuscito e ho molta voglia di suonare, solo che adesso ci si deve mettere in fila perché tutti stanno cercando di recuperare i concerti saltati: l’idea di tornare sul palco comunque per me è tornata ad essere bellissima!".
Ma se dovesse fare una playlist per i nostri lettori dei violinisti che ama di più chi ci metterebbe?
"Per me il più grande violinista della storia è stato David Ojstrach che forse non era perfetto come Itzhak Perlman ma è un po’ come Arthur Rubinstein per il piano: forse ci sono stati pianisti più bravi di lui ma nessuno come lui. E poi: Yehudi Menuhin, Arthur Grumiaux, belga, uno dei pochi non dell’Est, Salvatore Accardo…".
E della musica non classica?
"Jean-Luc Ponty direi".
Ma quante ore al giorno bisogna suonare per imparare?
"Io non sono in grado di cambiare una lampadina e sono completamente scoordinato ma ho sempre avuto una grande facilità tecnica per il violino. Fin da quando ero bambino cose che per altri erano molto difficili a me venivano facili. Anche il modo in cui sto sul palco, che è considerato da alcuni singolare e da altri scenografico, non è studiato: mi viene da far così, semplicemente. Un momento che ricorderò sempre è quando il mio primo maestro, commuovendosi, mi disse: suoni come un cinquantenne. Credo che volesse dirmi che l’acquisizione della competenza coincideva con la perdita dell’innocenza".
Lei è uno dei pochi in Italia ad aver avuto successo anche all’estero: dove è più conosciuto?
"I miei dischi sono stati tutti tradotti in francese, da un grande poeta che si chiama Etienne Roda-Gil mentre in Inghilterra è stato Pete Seinfield a farlo, anche lui poeta e in passato membro dei King Crimson. Nei paesi anglosassoni però non ho un seguito popolare, i miei fan sono considerati un po’ snob mentre in Germania, dove ho un grande seguito, canto in italiano ma poiché so il tedesco, ho il vantaggio di poter rendere partecipe il pubblico durante i concerti spiegando di cosa parlano le canzoni che stanno per ascoltare".
Dove l’ha imparato il tedesco?
"All’Istituto tecnico statale per il turismo. Quando da Genova mi sono trasferito a Milano perché mio padre aveva trovato un altro lavoro avrei voluto fare il liceo linguistico perché evidentemente ero abbastanza portato ma era solo privato e costava troppo, così ho fatto questo istituto che era sperimentale e aveva davvero ottimi insegnanti. Ce n’erano addirittura due: uno per la lingua parlata e l’altro per la grammatica e in più si facevano dei viaggi. Io poi tutti gli anni andavo a fare la vendemmia a Bordeaux, una cosa divertente ma molto faticosa e lì ho imparato molto bene il francese. Grazie a questo in quei paesi faccio le interviste senza bisogno di traduttori e posso comunicare in maniera diretta. In più, sempre in quell’istituto, ho incontrato Franco Fortini che è stata una delle figure più importanti della mia storia: per un adolescente conoscere un intellettuale simile è una cosa importante, grandiosa. Nella mia vita ho avuto tanti incontri bellissimi da Paul Buckmaster a Morricone con cui ho lavorato parecchio. Vinícius de Moraes diceva che la vita è l’arte degli incontri e se è così devo dire che la mia è stata particolarmente fortunata".