il Giornale, 27 marzo 2022
Lunga intervista a Valentino Rossi
Tavullia «Ricordami: tu quanti figli hai?», «Due, una femmina e un maschio»; «Quanti anni?», «Quasi venti e quasi diciotto»; «Ah, dioboh... e tu?», «Quattro, due maschi e due femmine, la più piccola ha otto anni», «Dioboh, l’ultimo l’hai avuto che eri grandicello... anche Giulietta è arrivata che sono un po’ grandicello». Papà Valentino Rossi è in ufficio alla VR46 e prende appunti. Tre settimane dopo la nascita della sua piccola e una settimana prima dell’inizio della nuova vita da pilota d’auto. Afferra il telefonino come un tempo alzava i trofei e gli occhi s’illuminano esplodendo una gioia diversa da quella mostrata su centinaia di podi. «Eccola, qui era appena appena nata» dice mostrandoci le foto del frugolino. «Una sensazione nuova, unica. La bambina è bella, simpatica, ha un buon carattere. È tranquilla come me e Francesca. Dà gusto. La desideravo, sono abbastanza grande, era anche il momento giusto e questa cosa casuale di smettere con le moto e diventare babbo è stata di una tempismo bellissimo. E Francesca è una grande mamma».
Giulietta è nata il giorno in cui dopo 26 anni iniziava il primo motomondiale senza di te.
«Sì sì, è vero. È nata il venerdì mattina delle prime prove libere in Qatar. E mesi prima, quando Francesca mi ha detto di essere incinta, era proprio il periodo in cui stavo pensando di smettere. Così l’ho preso come un segno del destino. Non ho smesso per questo però, se fossi stato competitivo avrei continuato anche da papà».
E il primo Gp senza di te dove l’hai guardato?
«In ospedale con Giulietta appena nata» e mostra la foto con la piccina sulla sua pancia. «È nata venerdì alle 4.00 di mattina. Quel giorno avevo anche le prove in pista con l’Audi a Imola per preparare il debutto della settimana prossima. Ho fatto tutta la notte in ospedale, all’alba sono tornato a casa. Ho dormito un paio d’ore, Albi (l’amico di sempre e Ad della VR46) mi è venuto a prendere per andare ai test. Dalle 14 alle 17 sono stato in pista con l’Audi R8 Gt3 e al ritorno, sfinito, sono andato a casa a dormire. Sono tornato in ospedale il sabato mattina, e con Giulietta in braccio abbiamo guardato insieme le prove».
Via, partiamo con questa rimpatriata dopo 25 anni...
«Ragazzi, rimpatriata vuol dire che siamo tutti vecchi».
Esatto. Per cui... che effetto ti ha fatto la prima domenica senza MotoGp?
«Nessuno. Ho pensato: Che culo non essere là in pista. Lo scorso anno tenevo molto a chiudere a Valencia in modo gioioso, e ci sono riuscito. Per cui ora mi ha dato gusto guardare i Gp dal divano. Sono un grande tifoso di moto, mi piace seguirle ovunque. E mi piace fare il tifo per i nostri piloti. Poi in pista c’è mio fratello, ci sono i miei amici. Il momento difficile è stato verso giugno, tra Barcellona e Assen, quando ho deciso di smettere».
E domenica cominci la nuova carriera con le auto.
«Sì. Perché rimanere a casa senza far niente sarebbe devastante dopo 26 anni a correre per il mondo. Sono due terzi della vita e se da lì, pam, tagli di colpo e non fai più niente, è tosta; invece io ho sempre lavorato per diventare un pilota di macchine...»
No, dai, hai fatto tutto questo cinema in moto per un quarto di secolo solo per arrivare alle auto...
(Ride) «Ho lavorato per arrivarci una volta che avrei smesso. Perché le moto sono cose da giovani, devi essere in forma, devi avere coraggio... Invece le auto, ecco, adesso non vorrei dire una cosa che poi viene mal interpretata, le auto sono un po’ più abbordabili anche dalle persone di una certa età».
Comunque una sfida. Il Fanatec GT Challenge Europe che scatta a Imola è un campionato molto competitivo.
«Sono curioso di vedere quello che riuscirò a fare: ora è di nuovo tutto bello, mi diverto quando guido la macchina, quando vado a fare i test. Cose che invece alla fine in moto ero un po’ stanco di fare. In fondo nasco come pilota di auto, ero sui kart da bambino, poi sono passato alle moto. Per fortuna...».
Però Enzo Ferrari diceva che un pilota padre perde un secondo al giro...
«Enzo Ferrari si sbagliava».
Nel tuo nuovo campionato si corre in coppia.
«Ci sono 5 gare in coppia e altre, più lunghe, in tre. C’è anche una 24 Ore a Spa – Francorchamps. Non vedo l’ora».
E sono gare toste.
«C’erano delle opzioni più facili, di facciata. Ma qui si cresce davvero, partecipano tutti quelli forti e non sarà semplice. Io corro con Audi, ci sono altre otto Case. Domenica a Imola ci saranno 52 auto e più di 150 piloti. Non so come faremo a starci... Voglio diventare un pilota forte, voglio capire più o meno dove posso arrivare e un giorno provare la 24 Ore di Le Mans».
Rimpianti per non aver scelto la F1 dopo le prove con la Ferrari nel 2006? E perché hai rinunciato?
«Nessun rimpianto. Il primo motivo per cui non andai è che non ero pronto a smettere di correre in moto; e fu la scelta giusta perché ho poi vinto altri due mondiali e una trentina di Gp. Quindi ho fatto bene. Poi ero, sì, molto vicino alla Ferrari però non sarei andato con la Rossa, sarei finito in un suo team satellite».
Negli ultimi anni in molti hanno pensato: «ma perché non smette, perché si ostina, il futuro lo spaventa, non sa fare altro...».
«Sbagliato. Io il futuro l’avevo già costruito da tempo: un’azienda di merchandising, la VR46, un team MotoGp, un’Academy per lanciare nuovi piloti, una pista di proprietà come il Ranch. E questo è stato anche merito delle persone che sono con me da sempre. La carriera è stata lunga e quindi abbiamo avuto tempo per pensare. Quando il mio merchandising era prodotto all’esterno non ci convinceva e ci siamo detti: Facciamolo noi. E da lì l’abbiamo realizzato anche per altri... I ragazzini appassionati di corse venivano a chiederci aiuto, il primo fu Simoncelli, poi Morbidelli, Migno, poi mio fratello, e aiuta qua e dai una mano là, ho detto: proviamo a fare una cosa per aiutare i ragazzini italiani. E abbiamo creato l’Academy. Poi sempre per la grande passione per le corse abbiamo provato a fare un team e adesso siamo in MotoGP. Ci serviva una pista per gli allenamenti e abbiamo costruito il Ranch. Avere la propria pista è uno dei sogni di tutti i piloti e noi l’abbiamo realizzato. Quanto a ostinarmi nel correre in moto, l’ho fatto perché ci credevo, perché credevo di poter continuare a vincere e comunque sono stato molto competitivo fino a metà della stagione 2019. Certo non ero più il Valentino Rossi di dieci anni prima, è normale, però ci credevo. Toh, ecco, potevo smettere un anno prima, a fine 2020, poi però il Covid, un anno del cavolo, spesso tre gare sulla stessa pista e che palle senza pubblico, mi son detto che faccio? Smetto così? No, troppo brutto, dai, faccio un altro anno. Non perché volevo la gente per il mio ritiro, ma perché desideravo lasciare dopo un anno di competizioni vere».
E com’è convivere con l’idea di lasciare?
«È difficile da accettare. Io non mi sono arreso fino alla fine. Ma capisci che a quarant’anni non hai più quegli istinti omicidi di quando ne avevi venticinque. Però è stata dura. A un certo punto della mia carriera, una decina di anni fa, mi sono chiesto: smetto quando sono sulla cresta dell’onda e mi ritiro da campione del mondo, o corro fino a quando non ne posso più?»
Risposta?
«Corro fino a quando non ne posso più. E così ho fatto».
Voglia di provare una moto del tuo team?
«Nooooo, non scherziamo. Quando sali su una MotoGP bisogna farlo con un obiettivo perché è una moto brutale che va fortissimo e non ha senso andare al 75%. La MotoGP non mi manca».
Personaggio Rossi per un quarto di secolo. Quanto è stato pesante?
«Mi è pesato soprattutto alle gare, perché a Tavullia sto bene. Faccio vita tranquilla. Ai Gp era invece diventata tosta. Non riuscivo più a lavorare. Migliaia di persone nel paddock. Foto, firme, tutto bello ma anche troppo. Alla sera ero esausto».
Però è colpa tua: hai trasformato il motociclismo da sport di appassionati relegato nelle officine meccaniche a evento nazionalpopolare e mondiale.
«E di questo sono fiero. È la cosa più bella e più importante della mia carriera: è impagabile aver fatto conoscere le gare di moto e la MotoGP a tutti. Vale più delle vittorie conquistate. Anche se poi senza risultati, fossi stato solo simpatico, non mi avrebbe filato nessuno».
Biaggi, Stoner, Lorenzo, i tuoi rivali storici per il titolo.
«Grande riavvicinamento con Casey, che mi manda spesso messaggi dall’Australia, mi chiede della bambina, ci siamo anche visti. E riavvicinamento pure con Lorenzo, ormai è un amico, è venuto alla 100 km del Ranch, alla sera eravamo a ballare assieme. E persino riavvicinamento con Max».
Con Biaggi? Uno contro l’altro avete diviso il Paese stile Coppi e Bartali.
«Sì, è stata forte. Ora ci salutiamo, parliamo reciprocamente bene l’uno dell’altro. È bello».
Ma crescendo hai capito il fastidio provato da Max quando arrivasti tu ragazzino irriverente, rubandogli spesso la scena?
«Sììììì, alla grande. Anche perché io non ero nessuno e lui era il numero uno in Italia e uno dei più forti al mondo e ho cominciato a rompergli le scatole. Ero una carogna (ride). Ma adesso tutto è passato, ci siamo riavvicinati. È stata una bellissima rivalità sportiva».
Hai pensato ai tifosi quando hai deciso di smettere?
«Correre è un impegno talmente grande che deve essere supportato dai risultati. Se esci dal motorhome alle otto del mattino e torni alle otto di sera ma parti in prima fila ti dà gusto, se invece parti dodicesimo ti rompi solo i maroni, quindi dopo un po’ ti passa la voglia. Questo è successo. Poi per i miei tifosi ho sempre fatto tanto ed ho corso fino allo sfinimento, la mia parte l’ho fatta».
Ha influito nella scelta il miracolo in Austria, nel 2020, quando la moto di Morbidelli ti è passata impazzita davanti a un niente?
«Mi ha fatto pensare. Già lo sapevo, ma lì ho avuto la riprova che nelle corse non basta stare attenti, che se ti trovi nel momento sbagliato nel posto sbagliato sei fregato. Quello sì, è stato un momento tosto, anche se non mi ha fatto dire smetto. Anzi, in quelle settimane ho deciso di andare avanti un’altra stagione. Però è stato veramente un incidente pauroso. In sella ho avuto molta paura ma per la moto di Zarco, rimasta relativamente lontana. Ho sentito il rumore della sua moto che si smembrava. La televisione ha appiattito tutto, i rumori, la potenza con cui la moto arrivava, rimbalzando di fianco a Viñales. Io già lì ero terrorizzato ma la moto di Morbidelli, il vero pericolo per me, quella che mi ha sfiorato, non l’ho nemmeno vista. Ho sentito come un’ombra che mi attraversava ma la velocità con cui mi è passata a due dita era mostruosa. È lì che ti dici: Varrà la pena?. Sono rientrato ai box molto impaurito e lì ho visto i miei meccanici, ricordo in particolare uno di loro, Alex, che singhiozzava. Gli ho detto: Dai, comunque ero a tre o quattro metri..., e lui: Ma l’altra moto l’hai vista passare?, e io: Quale altra?. Sì, quel giorno mi sono giocato il jolly».
Il motociclismo ora cerca un altro Rossi. Come si fa a diventarlo?
«Non so come succeda. Forse il mio segreto è stato di non voler diventare personaggio. O almeno non a tutti i costi. Sono rimasto me stesso e alla gente è piaciuto. Il Mondiale c’era prima di me e ci sarà dopo di me. Forse si ridimensionerà, una parte di gente non la seguirà più, ma la MotoGP è una cosa bella, funziona, la gente la guarda, ci sono altri piloti italiani, c’è la Ducati».
Però i tifosi dicono che tu stai alle moto come la Ferrari alla F1.
«Sì, l’ho sentito ed è una grande soddisfazione venire percepito nelle moto come la Rossa nell’automobilismo o la Nazionale per il calcio».
A proposito, ci vorrebbe una Academy alla Rossi nel calcio. Per allevare un po’ di giovani.
«In effetti perché no. Comunque l’Europeo l’abbiamo vinto e ho goduto. Certo, non andare al Mondiale fa male».
E una visitina al Mondiale MotoGp la farai?
«Andrò a qualche gara. Al Mugello, per esempio. Sarà però una cosa un po’ complicata perché da qualche parte mi devono mettere... non posso stare nel paddock senza far niente. Andrò a vedere i miei ragazzi del team, mio fratello».
Primo e ultimo Gp, che cosa ti viene in mente.
«Era il 1996, eravamo in Malesia, faceva caldissimo e assieme a Paolo Tessari, che come me correva in 125, andavo in giro per il paddock a rompere le scatole ai piloti giapponesi. Avevo un debole per loro e andavo a molestarli da un box all’altro. Mi sentivo in un villaggio turistico. Dell’ultimo Gp, a Valencia, ricordo invece il momento in cui sono arrivato con la moto al box. Questa cosa del ritiro è stata difficile da gestire, perché ho ricevuto un sacco di pressioni da fuori, tutti volevano fare delle cose per me, che poi alla fine erano per loro... Io invece avevo già in mente solo il box e avere lì i miei amici e quelli che sono stati i miei compagni in tutti questi anni. Volevano fare i fuochi d’artificio, volevano farmi salire sul podio ma io lì ci salgo solo se finisco nei tre, volevano farmi fermare sul traguardo per darmi un qualche premio, ma ho tenuto duro, ho fatto come volevo io ed è stato indimenticabile».
Ci sono grandi campioni che si sono persi per la pressione e il successo. Pensiamo alla triste parabola di Pantani. Tu mai. Quanto ti ha protetto la tua gente, il tuo gruppo di amici? Quanto sono stati preziosi per la tua serenità?
«Sono stati sempre la mia grande forza. Io ho avuto il merito di lavorarci, crederci, spenderci tempo ed energia, cercando di fare un team di persone anche in questo senso. Perché nel motociclismo corri da solo ma è un grande sport di squadra. Aver avuto intorno sempre le stesse persone, persone di cui mi potevo fidare, che sapevo mi avrebbero sempre cercato di aiutare, è stato fondamentale. Mi hanno sempre aiutato e protetto... e poi volete mettere che gusto aver ottenuto tutto questo condividendolo e non da solo? E poi sì, all’inizio, con i primi successi, ho assaggiato la vita da star, nei locali, avanti e indietro tra Roma e Milano, ragazze da favola, ma capii subito che non faceva per me. Non mi dava lo stesso gusto di stare con i miei amici. Ho scelto loro. Quell’intesa che cementi da piccini è preziosa e non si crea mai con gli amici della maturità. Se riesci a mantenerla, ti protegge e aiuta. Per questo sono sempre qua».