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 2022  marzo 27 Domenica calendario

Aurelio Picca contro Pinocchio. Intervista

Aurelio Picca – scrittore estremo, luminoso e antimoderno – è così. Cuore, Sacrocuore, pistole, vestaglie di seta, innocenze, intemperanze, crimini e libri ben fatti. Il nuovo s’intitola Contro Pinocchio (Einaudi) che, al di là del racconto autobiografico in cui l’autore si scaglia contro il burattino più insopportabile della storia della letteratura, è giusto un pretesto per parlare d’altro. Soprattutto per affermare il diritto di affrontare chiunque, anche i giganti, senza timori reverenziali e con eleganza critica. Di solito quando ci si accosta ai classici si rischia di cadere in uno o l’altro di due atteggiamenti opposti ma ugualmente pericolosi. O la denigrazione sistematica, tipica dei giovani rivoluzionari, o il sistematico rispetto, che accomuna gli accademici conservatori. Poi c’è Aurelio Picca, teorico del conservatorismo rivoluzionario. Con lui, che è nato già classico – il suo primo libro di racconti del 1992 fu lodato da Luigi Baldacci, Geno Pampaloni e Alfredo Giuliani – parliamo del coraggio di attaccare classici, maestri, canoni e luoghi comuni.
Perché bisogna abbattere Pinocchio?
«Perché i libri si dividono fra quelli fondamentali, che formano l’uomo e gli scrittori, e sono quelli che senti già dentro prima di leggerli, che accendono una scintilla, che ti aprono un mondo, ma non sono più di venti in una vita, e poi tutti gli altri, che leggi o per divertimento o per amore della letteratura. I primi sono i libri formativi, sorgivi, essenziali. Dei secondi si può fare a meno. Ecco: Pinocchio è tra i secondi, anche se viene considerano fra i primi».
Perché non ti piace Pinocchio?
«Perché fin da piccolo io ho amato i film e le pagine tragiche. Quel pezzo di legno invece non mi ha mai chiamato, non l’ho mai sentito mio. Con i pezzi di legno ci facevo croci e spade. Per me Pinocchio è sempre stato qualcosa di non vivo. Non è un Bildungsroman, non è un viaggio, non forma nessuno, non insegna niente... Pinocchio è solo un gioco di due poveri vecchi, Geppetto e Mastro Ciliegia, e di una fatina pop cadaverica... È una casa di morti».
Liquidato Pinocchio, quali sono i maestri e i classici da abbattere?
«I falsi classici, appunto. Io mi sono formato sugli scrittori di provincia, considerati marginali, e che ora tornano in auge: Giuseppe Berto, più il Berto del Cielo è rosso che del Male oscuro, il Tobino di L’angelo del Liponard, il Malaparte di Kaputt, e poi Piovene, ma certo: anche Comisso, anche il Parise non tanto dei Sillabari, libro elegante ma stiloso, quanto del Ragazzo morto e le comete, una surrealtà che si gioca tra vivi e morti...».
Salviamo i provinciali e rifiutiamo... chi?
«Alberto Moravia è sopravvalutato, perché a parte la gelida disperazione somatizzata che trovi negli Indifferenti, ci resta poco: Agostino, il suo libro più vero, e i reportage dall’Africa, dove l’autore molla il controllo voyeuristico e si lascia andare all’espressività. Un altro grande sopravvalutato è Italo Calvino, uno scrittore che ha fatto disastri nella letteratura italiana inventando un italiano internazionale neutro, perfetto per la traduzione ma che ha lasciato indietro il vero italiano, quello provinciale dei Bianciardi, dei Testori, delle Ortese. Un gioco che ha prodotto una lingua neutra buona per essere tradotta ma che ha tradito. Non a caso il figlioccio letterario di Calvino è Daniele Del Giudice, scrittore molto onesto, ma...».
Pasolini? È il centenario e tutti ne dicono solo bene.
«Anche lui: sopravvalutato. Molto. E ora ti dico perché. Dopo le Poesie a Casarsa, dove era purissimo, doveva smettere di scrivere. Dopo, da quando arriva a Roma, Pasolini cerca solo il successo. E oggi di lui resta poco. I suoi due primi romanzi sono ormai carta straccia, mentre almeno Petronio è un castello di carne in rovina. Le poesie delle Ceneri di Gramsci le devi scegliere qua e là, mentre ecco, sì come regista è geniale. Non nella Trilogia della vita, girata per ragioni commerciali, ma in Salò, film che non si può guardare tanto è feroce, e che non parla affatto del potere, ma di Pasolini stesso. Certo, poi, di fronte al conformismo intellettuale di oggi, l’ultimo Pasolini diventa un gigante, persino profetico, ma non perché sia stato davvero un profeta, ma perché in un deserto che non vede il futuro uno come lui spicca come visionario».
Altri capitoli del canone da scardinare?
«Il Gattopardo. Nel film di Luchino Visconti c’è un Eros potente, nel romanzo invece la storia è dilatata e appiattita. Il Marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana è di molto superiore al Gattopardo. Senza dire del Verga dei Malavoglia e del Mastro don Gesualdo, dimenticati».
E poi? 
«Montale. Dopo Ossi di seppia diventa un poeta concettoso, pesante, egoista. Mentre ancora chiede vendetta il Nobel non dato a Ungaretti».
Ti danno del conservatore.
«Lo sono! Nel senso che voglio conservare la cultura e la storia della lingua italiana. Per me in questo senso Alessandro Manzoni è uno scrittore enorme. Altro che autore cattolico, semmai sperimentale. Manzoni sapeva usare cinque-sei registri narrativi come nessuno ha saputo fare con quella potenza e quella forza linguistica».
Leopardi?
«Io ho una mia tesi. E cioè che La pioggia nel pineto di D’Annunzio sia meglio del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, un romanzetto breve che racconta l’uomo dalla nascita alla morte in una carrellata cinematografica. Invece La pioggia nel pineto è come essere scaraventati fuori dal Paradiso terrestre ma senza dolore. È un orgasmo cosmico, non una dannazione cosmica come in Leopardi. Il vero Leopardi è quello delle Operette morali, non a caso un’opera di fantasia come gli antichi, non di immaginazione sentimentale come i moderni».
La figura dello scrittore oggi?
«Lo scrittore serve se ha il coraggio di essere sempre eversivo, come lo fu Ugo Foscolo, che aveva combattuto per Napoleone e che quando gli austriaci fecero un elenco degli intellettuali dell’epoca, sotto il suo nome scrissero Pericoloso sotto ogni Stato. L’intellettuale deve essere così: contro tutti, sempre. Rivoluzionario nel senso di essere in opposizione, conservatore nel senso di tenere viva la memoria. Se è capace di essere così ha un senso, ma siccome gli intellettuali di solito non sanno fare altri mestieri, hanno fatto dello scrivere una carriera sicura invece che una battaglia permanente».
Classici, maestri, intellettuali. Tutti bocciati. E la Scuola?
«È un parcheggio dove non si imparano le uniche due cose che servono: leggere e scrivere. Ci sono anche insegnanti eroi, certo. Ma intanto la maggioranza degli studenti non sa più leggere né scrivere. Quando insegnavo, anni fa, io ai miei studenti facevo imparare lunghi canti a memoria di Dante, li obbligavo. Anche i delinquenti che non sapevano spiccicare due parole in italiano corretto. Anzi: proprio con loro mi imponevo. La scuola deve insegnare a leggere e a scrivere. Il resto è solo burocrazia. La scuola oggi è un posto dove le ex bidelle sono diventate segretarie e nelle antologie di Italiano ci sono scrittori contemporanei semi ignoti ma manca Tommaso Landolfi. Abbiamo perso la vera scrittura, la vera lingua».
Cosa abbiamo perso, ancora?
«Il senso del sacro. Totalmente. Io sono un cristiano delle origini, fra paganesimo e santità. Trent’anni fa sentii una predica di un gesuita, a Siviglia: Dobbiamo essere uniti perché la Chiesa è fragile, può cadere. Ecco: la Chiesa deve tornare alla propria fragilità. Non deve andare verso la modernità, non deve accettare il compromesso. Cristo non li accettava. È venuto per dividere, non per mediare. Ha diviso, scandalizzato e dilaniato per essere ucciso, offeso e dilaniato».
Non resta che la Morte.
«Una parola che uso tutti i giorni. Io devo avere il senso della morte sempre vicino, mentre gli uomini tendono ad allontanarla da sé, anche fisicamente. Già Foscolo nei Sepolcri non accettava che i morti fossero ammucchiati fuori le mura delle città. Ora sembra che si voglia addirittura far scomparire i corpi dei morti, cremandoli. Si dice che così possiamo tenere le loro ceneri con noi, ma è una menzogna: si bruciano perché non vogliamo più vedere i camposanti. Ma questo è una sottrazione di umanità, di civiltà, di cultura. I bambini non sanno più cosa siano i cimiteri. I vecchi non muoiono più in casa, ma lontano, nelle cliniche e nelle case di riposo. Muoiono non fra le mani doloranti dei loro parenti, ma fra le mani dei nemici. E così si elimina l’elemento più sacro che esiste: la morte. L’abbiamo tolta di mezzo. Non c’è più stagione del lutto, che è riflessione, preghiera, rimettersi in ordine, autoanalisi, entrare in contatto con l’interiorità. Hai capito allora perché odio Pinocchio? Un libro in cui un cadavere di legno torna in vita, così, come fosse un gioco...».