Il Messaggero, 27 marzo 2022
I pazzi diari di Andy Warhol
Niente predestinava a diventare un genio dell’arte contemporanea il figlio di un minatore di carbone ruteno e di una semianalfabeta invasata di religiosità greco ortodossa e di icone bizantine, emigrati dopo la Grande Guerra da un paesino della Slovacchia a Pittsburgh per passarsela malissimo. Genio della grafica, dell’arte commerciale, del cinema underground, delle pubbliche relazioni, in un mondo dominato dalla pubblicità, dai media e dalla ricerca esasperata di fama e di riconoscimento sociale, Andy Warhol è stato non solo l’inventore della pop art, ma un’icona di prima grandezza e il creatore della stessa cultura contemporanea, in cui forse senza nemmeno saperlo viviamo immersi fino al collo.
L’ATTENZIONE
È lui, con quella strana faccia, la timidezza da ragazzino, le frasi smozzicate e paradossali (per esempio «mi piacciono le cose noiose») e però corroborate sempre da una spasmodica attenzione agli altri, e da una curiosità molto cristiana verso la creatura umane («è un poveraccio – diceva di certi suoi amici marginali di lusso – perciò, bisogna amarlo ancora di più»), è lui coi suoi occhialoni da miopie e la parrucca bianco argentato con cui si è fatto pure seppellire, ad aver sperimentato sulla propria pelle l’efficacia del marketing e delle leggi del desiderio applicate all’arte. È lui ad averne abusato e sofferto per primo, a costo di farsi schifare da due grandissimi dell’arte contemporanea come Jasper Jones e Roy Lichtenstein, suoi quasi predecessori, perché come un giorno gli spiegò il suo amico e mentore Emile De Antonio, «tu sei troppo frocetto per loro, e questo li mandia in bestia; li rendi nervosi perché tu collezioni quadri, cosa che non si fa, sei un artista commerciale e questo davvero li rode, perché quando l’arte commerciale la fanno loro vetrine e altri lavoretti da me forniti lo fanno solo per sopravvivenza, senza manco usare i loro nomi. Mentre tu hai vinto dei premi e per questo sei famoso». Bisogna leggere questi suoi diari, frutto delle telefonate fiume quotidiane con Pat Hackett, tradotti prontamente da Feltrinelli mentre Netflix manda in onda la docuserie su di lui, per capire il talento poliedrico di questo uomo che ambiva sin da giovane ad essere considerato da Picasso, di questo omosessuale non dichiarato, attratto dai ricchi e famosi, tanto da irretire nel suo giro Jackie O. e Gianni Agnelli, Imelda Marcos e Mick Jagger, di questo impostore seriale che riusciva a calamitare i figli dei ricchi che sanno rilassarsi, evitando quelli che sognavano di essere normali.
LE TECNICHE
Andy Warhol ha praticato le tecniche più sofisticate della manipolazione di massa, coltivando la stranezza e la marginalità, sino a farne un marchio di fabbrica e uno stile di vita e imporlo come un principio estetico. Lo ha fatto con l’allegra e disperata accolita di spostati che bazzicavano la sua Factory, la pazza Bauhaus da lui fondata sulla 47ma Strada, dove le superstar e il jet set della finanza, del collezionismo, e dell’intellighenzia newyorkese si strusciavano per consumare anfetamine con ballerini e drag queen, scrocconi professionisti, banditi e criminali e però rispettatissimi. Era quello, oltre ai bar per soli gay e i night club parigini come Castel, l’approdo irresistibile di certi miliardarie con la fregola da cleptomani come Edie Segwiek, discendente di una famiglia di padri fondatori, o di poeti mancati, suoi dolcissimi angeli custodi, come l’ assistente Gerard.
IL MAGNETE
Per tutti loro Andy Warhol era un magnete potente e l’alchimista che trasforma in oro tutto ciò che tocca, dalla serigrafie prodotte in serie sin dal 1962, incollando una foto sulla seta per replicarla all’infinito con minime variazioni, ai video deliranti come Blow Job che riprende l’orgasmo di un uomo senza però mostrare gli appassionati che glielo dispensavano, alla serie Death and Disasters ispirata da un titolo del Daily News su 129 morti di un incidente aereo.