Il Messaggero, 27 marzo 2022
Il Patto di Varsavia e la sua fine
Il 25 febbraio 1991 i ministri degli Esteri e della Difesa di Unione Sovietica, Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania e Bulgaria firmarono a Budapest l’atto con il quale, entro il 31 marzo successivo, sarebbe stato sciolto il Patto di Varsavia. Sono passati esattamente 31 anni da quel giorno, e oggi la situazione è rovesciata. L’Urss si è dissolta e i paesi che un tempo furono suoi alleati, o per meglio dire i suoi satelliti, si sono riparati sotto l’ombrello della NATO. Ma il Patto di Varsavia esiste ancora, almeno nella memoria dei meno giovani; come simbolo della guerra fredda, e purtroppo evoca le cause di quella calda in corso.
L’IMMAGINENelle dichiarazioni del 21 febbraio, Putin ha infatti lasciato capire che intende riprendersi l’Ucraina, e magari ricostituire la nuova Unione Sovietica non più sotto la cupa immagine della falce e martello ma al lume delle candele e delle icone della Santa Madre Russia. Se la sua sincerità religiosa può essere dubbia, è invece certa la sua nostalgia per l’esistenza del Patto di Varsavia.
L’origine di questa alleanza ineguale – in realtà un patto leonino tra dominante e sudditi – risaliva alla conferenza di Yalta del febbraio 1945, quando i tre grandi, in procinto di abbattere il nazismo, si divisero le sfere di influenza postbelliche. Il vincitore morale della guerra era Winston Churchill, che non solo l’aveva prevista durante l’accomodante politica di appeasement di Stanley Baldwin e di Neville Chamberlain, ma che aveva rifiutato di arrendersi dopo la sconfitta della Francia nel giugno del 1940.
L’EPOCAA quell’epoca Stalin era di fatto alleato con Hitler, con un cui aveva stipulato il famigerato accordo per dividersi la Polonia nell’agosto del 1939. Il baffuto dittatore invece di incoraggiare la lotta al nazismo fomentava il pacifismo interno, a attribuiva le colpe del conflitto alle plutocrazie occidentali e ai fabbricanti di cannoni. E i partiti comunisti europei, fedeli e servili, seguivano le sue direttive invocando la pace. È interessante notare che oggi, anche senza il comunismo, vi sono delle anime belle che consigliano a Zelensky la stessa abdicazione codarda imposta da Stalin ai paesi occupati dal Fuhrer. Ma torniamo a Yalta.
I LIBERATORITutto era cambiato nel giugno del 41 quando la Wehrmacht aveva invaso la Russia. Nell’Ucraina, oppressa dai sovietici, i tedeschi erano stati accolti come liberatori, salvo farsi subito odiare per le loro stragi disumane e la loro stupida arroganza. Dopo una serie di vittorie, i carri di Hitler si impantanarono, come oggi alle porte di Kiev, per l’allungamento delle linee di rifornimento e il fango del disgelo. Il resto è noto. Con l’entrata in guerra degli Stati Uniti la partita si chiuse, e americani e russi si divisero la torta. A Yalta, Churchill assistette impotente a due eventi che lo costernarono: il tramonto dell’Impero britannico, e il declino psicofisico di Roosevelt che ne determinò la soggezione all’energico dittatore georgiano. Il quale, avendo occupato, o essendo sul punto di occupare l’Europa orientale, aveva tutta l’intenzione di tenersela. E infatti dopo la guerra, con una serie di colpi di Stato, instaurò regimi comunisti nei paesi liberati dall’Armata Rossa.
LA TIRANNIDEL’Austria si salvò per un pelo, con una sorta di neutralizzazione. Su tutti gli altri scese la cupa ombra della tirannide: socialisti, liberali e cattolici furono dappertutto perseguitati, incarcerati o impiccati. Al di là della cortina di ferro, esisteva un partito unico, che inneggiava alla pace ed era già in guerra.
L’Occidente, scosso da questa aggressività talvolta subdola e talvolta violenta, reagì costituendo un’alleanza politica, il Patto Atlantico, assistita da un’organizzazione militare integrata, la Nato. Quando anche la Germania di Bonn entrò a farne parte, l’Unione Sovietica rispose con il Patto di Varsavia, stipulato nella capitale polacca il 14 Maggio 1955. In realtà non ce n’era bisogno: dalla conferenza di Potsdam, di poco succeduta a quella di Yalta, tutta l’Europa orientale era, come abbiamo detto, sotto il sostanziale controllo militare di Mosca.
I due schieramenti erano militarmente disomogenei. Gli occidentali avevano eserciti esigui, e un tentativo di difesa comune europea era fallito per volontà della Francia, indebolita dalle sconfitte in Indocina, e probabilmente condizionata dalle trattative di pace con i comunisti.
LA SUPERIORITÀI russi avevano una schiacciante superiorità di uomini e di mezzi corazzati. La vera difesa della Nato era costituita dalla presenza americana e dal suo arsenale atomico, distribuito nelle varie basi degli alleati. La sua strategia era quella elaborata da John Foster Dulles, della rappresaglia massiccia e immediata. Se l’Urss avesse attaccato un membro della Nato, l’America avrebbe distrutto Mosca. Tutto questo cambiò quando i sovietici, mandando in orbita lo Sputnik, dimostrarono di disporre di missili in grado di colpire New York, e gli Usa ripiegarono sulla cosiddetta risposta flessibile. Ne seguì un riarmo selettivo. Quando Breznev puntò i suoi missili SS20 sulle capitali europee gli americani risposero piazzando in Europa i Pershing e i Cruise. I nostri ultra pacifisti, come accade oggi con Putin, equipararono il provocatore e il provocato, e invasero le piazze contro la Nato. Ma ormai la storia procedeva a dispetto delle loro petulanti litanie. L’Urss si stava dissolvendo, e nel 1989 crollò il muro di Berlino. Poco dopo, com’era inevitabile, si sciolse anche il Patto di Varsavia.
I PRECETTIAmmoniti dai salutari precetti dell’esperienza, e formati da quelli perfettibili ma nobili della democrazia, questi paesi ora tremano davanti alla prospettiva di ritornare sotto il giogo di un nuovo padrone del Cremlino. Nella loro ultraquarantennale servitù postbellica hanno dovuto subire non solo il dominio di Mosca, ma l’umiliante imposizione di intervenire per reprimere i dissensi dei paesi fratelli, in ossequio a quella dottrina che Leonid Breznev chiamò sovranità limitata.
Se le repressioni a Berlino Est nel 53 e a Budapest nel 56 furono opera esclusiva dei russi, l’invasione cecoslovacca del 1968 fu attuata anche da ungheresi, polacchi, bulgari e tedeschi. È dunque perfettamente comprensibile che queste nazioni siano oggi le più preoccupate delle velleità espansionistiche del nuovo zar moscovita. Ed è perfettamente logico, oltre che doveroso e utile, che l’Occidente si schieri al loro fianco e sostenga, nei limiti della ragionevolezza e del rischio calcolato, anche la causa di chi, come l’Ucraina, ne costituisce la linea di difesa più avanzata.