Corriere della Sera, 27 marzo 2022
La fuga del ceto medio russo
«Non c’è nulla di più importante della salute dei bambini. Vladimir Putin non è mai rimasto indifferente alle richieste della nostra fondazione e dei nostri dottori. Tutte le sue promesse sono sempre state mantenute, il suo aiuto è costante. Quindi, io voterò per lui con convinzione».
La persona che nel 2012 concludeva il suo video messaggio con un sorriso carico di dolcezza è la stessa che dieci anni dopo, la sera del 21 marzo, ha lasciato la Russia con le sue tre figlie a causa delle decisioni prese dall’uomo per il quale aveva scelto di fare campagna elettorale. «Certo che sarei potuta restare. Avrei dovuto soltanto mentire a me stessa, mentire al mondo e ai miei amici ucraini, e poi insegnare alle mie bambine come vivere nella menzogna. Non c’era altra possibilità che andarsene». Proprio nell’anno in cui aveva contribuito alla rielezione del suo presidente, Chulpan Khamatova era stata insignita del titolo di attrice più popolare della Russia, il più alto riconoscimento artistico al quale poteva aspirare in patria. «Una di quelle persone alle quali non puoi non volere bene» aveva detto durante la cerimonia il ministro della Cultura Vladimir Medinskij, che oggi ha cambiato lavoro e fa il capo della delegazione russa per i negoziati e i colloqui con l’Ucraina. Faceva riferimento a quella che era diventata l’attività principale di Khamatova, la Fondazione Regala la Vita, si chiama così anche in originale, che dal 2006 ha dato assistenza a oltre 73 mila minorenni malati di cancro. Adesso risponde dalla sua casa nel centro di Riga, in Lettonia.
Chulpan Khamatova
Certo che sarei potuta restare. Avrei dovuto soltanto mentire a me stessa, mentire al mondo e ai miei amici ucraini, e insegnare alle mie bambine come vivere nella menzogna
Chiamiamola pure la diaspora russa. «Oltre duecentomila persone hanno lasciato il Paese nell’ultimo mese», ha detto Joe Biden ieri a Varsavia. Pochi giorni fa, il quotidiano turco Hurriyet scriveva che erano almeno 14.000 i cittadini russi atterrati a Istanbul e Ankara. Le autorità armene sostengono che un flusso simile è stato registrato all’aeroporto di Erevan e al varco di frontiera con la Georgia. La Finlandia ha dichiarato di avere accolto oltre ventimila cittadini russi, lo stesso ognuno dei tre Paesi baltici. Non manca poi molto per raggiungere la cifra indicata dal presidente americano. «Ero un uomo felice» racconta Kamran Manafly, ormai ex professore di geografia alla scuola 498 di Mosca, un liceo, emigrato in Lituania. «Mi sono soltanto rifiutato di giustificare l’operazione militare speciale in Ucraina ai miei studenti». Il giorno dopo, è stato licenziato per «condotta immorale», con una nota di ignominia che gli renderà impossibile insegnare ancora nel suo Paese. «Io non credo che essere dipendente statale equivalga a essere uno schiavo dello Stato».
Kamran Manafly
Mi sono solo rifiutato di giustificare l’operazione militare ai miei studenti e sono stato licenziato per condotta immorale. Essere dipendente statale non vuol dire essere schiavo dello Stato
L’esodo russo non si spiega soltanto con l’obiezione di coscienza. Anche le sanzioni stanno portando verso una scelta obbligata migliaia di giovani che lavoravano nel campo della tecnologia. «La prima ondata è stata di 50-70 mila persone. L’unica cosa che frena la seconda è il fatto che nessuno all’estero vuole più lavorare con persone provenienti dal nostro Paese». A pronunciare queste parole non è stato un pericoloso dissidente, ma Sergey Plugokarenko, capo del Raec, l’Associazione russa per le comunicazioni elettroniche. E lo ha fatto alla Duma, durante una seduta che aveva all’ordine del giorno «lo sviluppo del settore informatico sotto sanzioni». Secondo le sue previsioni, entro aprile altri 70-100 mila tecnici e programmatori di software se ne andranno. La ragione è semplice, ha detto. Non vedono più alcuna prospettiva.
Il rifugio dei giovani IT, acronimo inglese di Information Technology, è diventato la Serbia. Forse il Paese dove il supporto all’operazione militare speciale è più diffuso, uno dei pochi a rifiutarsi di applicare le sanzioni, lasciando aperti i collegamenti aerei con Mosca. Il gruppo Telegram sui nuovi arrivi conta cinquemila adesioni. «Lo so che è un paradosso» spiega l’ingegner Iakov Borevich da un bar nel centro di Belgrado. Appena arrivato nell’appartamento che aveva affittato a Belgrado, ha notato un poster alla parete. La faccia di Putin, e sotto la scritta fratello in cirillico. «Quando mi dicono che le stragi di civili sono fake news, faccio cadere la conversazione. Alla fine, non siamo qui per discutere di politica internazionale. Ma per trovare lavoro».