la Repubblica, 27 marzo 2022
Breve storia della mafia
a cura di Isaia Sales (testo) Carlo Bonini (coordinamento editoriale) e Laura Pertici (coordinamento multimediale) Il 21 marzo Napoli ha celebrato la giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti di mafia. La manifestazione, indetta da Libera (l’organizzazione di don Luigi Ciotti), si tiene da più di 25 anni ed è nata proprio a seguito di un commovente incontro del prete torinese con la madre di un poliziotto della scorta di Giovanni Falcone che gli aveva fatto notare come il nome del figlio ucciso non venisse mai ricordato. È una giornata che ha una caratteristica: la lettura, dal palco, della lunghissima lista di nomi delle vittime innocenti cadute per mano di mafiosi. Più di mille quelle finora accertate. Esistono varie manifestazioni in altri Paesi che ricordano tragici episodi della Storia, ma nessuna di queste riguarda vittime di mafia. L’Italia è uno Stato-nazione caratterizzato da una lunga presenza mafiosa e al tempo stesso dalla reazione di coloro che la contrastano. Che tuttavia non coincidono esclusivamente con gli appartenenti alle istituzioni repressive. La presenza di un vasto movimento d’opinione che affianca l’azione delle polizie e della magistratura segnala una felice anomalia nella storia della lotta ai criminali, ma ciò non è avvertito da tutti come un fatto positivo. Da più parti si ritiene che questa anomala presenza di energie antimafia “non istituzionali” solleciti un eccessivo protagonismo di coloro che per professione sono tenuti ad occuparsene, i quali proprio perché hanno un pubblico “tifoso” sono portati a rompere la discrezione che la loro delicata attività richiede e ad essere meno sereni nel giudizio. Si sostiene, poi, che la magistratura non deve fare guerre contro i criminali ma applicare semplicemente la legge nei loro confronti. Il che è giustissimo. Ma rifacendo la storia d’Italia si può tranquillamente affermare che la base del successo delle mafie sta proprio in un atteggiamento di tolleranza (o addirittura di aperto sostegno) che nel corso del tempo diversi ambienti della magistratura e delle forze dell’ordine hanno riservato ai mafiosi. Fino a poter parlare di vera e propria impunità per un secolo e mezzo, almeno fino al maxi processo di Palermo del 1986, che interruppe quella lunga fase storica di sottrazione alla legge di spietati assassini. La svolta nell’atteggiamento dei magistrati (e delle forze dell’ordine) negli ultimi 40 anni ha dunque modificato radicalmente i termini della questione mafiosa e andrebbe salutata come un fatto importante che ripristina la “normalità” nell’applicazione della legge nei confronti della criminalità più pericolosa e più duratura della storia italiana. Una storia di impunità segnata da alcuni episodi chiave e da alcuni protagonisti spesso dimenticati. Partiamo dall’elogio funebre da parte di Guido Lo Schiavo, altissimo magistrato di Cassazione, che sulla rivista “Processi” così si era espresso sul capo mafia Calogero Vizzini, morto nel 1954: «Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi ed ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine. Oggi si fa il nome di un autorevole successore di Don Calogero Vizzini in seno alla consorteria occulta. Possa la sua opera essere indirizzata sulla via del rispetto alla legge dello Stato e al miglioramento sociale della collettività». Che dire di queste affermazioni di uno dei massimi esponenti della magistratura italiana di allora, per di più siciliano? Intanto che un magistrato sapeva già chi sarebbe stato il successore di Vizzini alla guida della mafia, cioè Giuseppe Genco Russo, e non lo fa arrestare, anzi lo lusinga (“autorevole successore”), perché non lo considera un fuorilegge. Così come non considera tale Vizzini, né tantomeno pensa che la mafia sia un’associazione di criminali. Ma soprattutto va segnalato che questo articolo non fece scalpore. Il magistrato non fu richiamato, né il suo parere contrastato, né si usò verso di lui alcuna misura disciplinare. Il suo scritto fu considerato “normale” perché tale era la percezione che le classi dirigenti della Sicilia e dell’Italia (compresa la magistratura) avevano della mafia. Il parere di Lo Schiavo era condiviso da un notevole numero di magistrati che non avevano timore di dichiarare pubblicamente che la mafia non solo non era un problema ma addirittura una “forza d’ordine”, un’organizzazione che collaborava con le forze di sicurezza dello Stato, cioè anche con i magistrati. Ripercorrendo all’indietro la storia delle mafie si ritrova lo stesso atteggiamento in diversi magistrati di epoche diverse, atteggiamento che cambia solo dopo gli anni Settanta del Novecento, quando una nuova generazione di magistrati sostituisce quella che in gran parte era stata in sintonia con il comportamento e con il metodo mafioso. Il comportamento dei magistrati era stigmatizzato anche da Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino nella loro controinchiesta parlamentare del 1876, arrivando addirittura a chiedere che nessun magistrato di origine siciliana operasse nell’isola. E quando un funzionario di polizia Ermanno Sangiorgi (poi questore di Palermo) cercò di avviare un’azione dura contro la mafia, trovò un ostacolo proprio nel procuratore generale Carlo Morena, che riteneva che la mafia non esistesse come organizzazione e che in ogni caso non sussistevano relazioni e contatti tra le varie famiglie. Morena difenderà il sindaco mafioso del comune di Burgio, impedendo al Sangiorgi di arrestarlo, considerando lui e i suoi amici mafiosi “amanti dell’ordine”. All’epoca, del resto, un capo mafia come Antonino Giammona andava regolarmente a caccia con il primo presidente della corte d’appello di Palermo.
La prima commissione parlamentare antimafia, varata nel 1962, cioè quasi 100 anni dopo quella del 1875, insisterà sulle «ripetute assoluzioni che confermano l’impressione di una permanente impunità per i grossi esponenti mafiosi attraverso un meccanismo che sfugge al controllo della legge, del Parlamento e di tutti gli organi e poteri dello Stato». Eppure, i nomi dei magistrati che mandavano assolti i mafiosi e che stringevano rapporti cordiali con essi erano conosciuti uno per uno. Due membri della prima commissione parlamentare antimafia, Giovanni Elkan e Mario Assennato, avevano svolto nel 1965 un’approfondita indagine per verificare la causa dei numerosissimi casi in Sicilia di assoluzione per insufficienza di prove e di archiviazione delle denunce anche di fronte a prove schiaccianti, e misero per iscritto che si trattava di qualcosa di abnorme e di ingiustificato. Ma i nomi dei magistrati coinvolti non furono mai pubblicati. In Calabria, nel 1939, nel processo per l’omicidio del boss Paolo Agostino, sono proprio i giudici a tracciare un ritratto di grande ammirazione per l’ucciso. E negli anni Settanta, dopo l’uccisione dell’avvocato generale dello Stato, Francesco Ferlaino, scomparve dallo studio del magistrato che l’aveva redatta la relazione per il Consiglio superiore della magistratura, in cui si parlava apertamente delle collusioni di diversi magistrati con le ?drine. Sebbene un’opinione pubblica allarmata accusasse la magistratura calabrese di non perseguire gli ?dranghetisti, Antonio Macrì, per lunghi anni capo indiscusso della ?drangheta, fu più volte assolto per insufficienza di prove. Il tribunale di Locri è stato spesso al centro di indagini del Consiglio superiore della magistratura per numerosi casi di giudici in rapporti con boss della mafia calabrese. Clamorosa la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio del presidente del tribunale, Fortunato Agostino, per avere emesso due provvedimenti giudicati “abnormi” dal Ministro della Giustizia. Agostino, senza consultare gli altri membri del collegio giudicante, aveva concesso gli arresti domiciliari a Pietro Marsiglia, accusato di sequestro di persona, e la libertà provvisoria a Salvatore Aquino, capo di una cosca di Gioiosa Ionica. Nel 1977 il giudice istruttore Agostino Cordova accertò la scomparsa di numerosi fascicoli processuali riguardanti noti ?dranghetisti; la questione venne sollevata in Parlamento con una interrogazione, a seguito della quale fu avviata azione disciplinare contro il giudice istruttore Francesco Delfino, del procuratore della Repubblica Carlo Bellinvia e di un cancelliere. A proposito della connivenza della magistratura va ricordato una sentenza del tribunale di Palmi, 18 maggio 1981, presidente Giuseppe Gambadoro, contro Giuseppe Piromalli (uno dei capi più importanti nella storia della ?drangheta) e altri imputati, in cui si legge che «la mafia interviene sempre per difendere l’ordine» per procurare in ogni contrasto un «accordo tra amici», aggiungendo che la mafia «che potremmo definire di tipo tradizionale, malgrado qualche autorevole giurista abbia ravvisato in essa un’associazione per delinquere, non può ritenersi tale, posto che, prefiggendosi anche illecite, perseguiva pure la lotta all’ingiustizia, componeva le vertenze e, quindi, non può dirsi che avesse una preordinato e specifico programma delinquenziale». In un tribunale dello Stato italiano, ancora nel 1981 si affermavano in sentenze opinioni del genere. Significativo il fatto che nel secondo dopoguerra in Sicilia i riferimenti alla mafia sono appena accennati o del tutto rassicuranti nelle prime relazioni dei procuratori generali. Nella relazione del 1956 si può leggere addirittura che «il fenomeno della delinquenza associata è scomparso». Il procuratore generale di Palermo, Merra, nel 1957 così parla dei fenomeni criminali, senza mai citare la mafia: «Tuttavia è bene che su questo fenomeno criminale da reputare transitorio, troppo si è esagerato. Bisogna sfatare la leggenda di una eccezionale criminalità in Sicilia». Nel 1958, lo stesso procuratore fa riferimento a «caratteristiche non eccessivamente allarmanti della criminalità». Solo nel 1959, finalmente, si cita la parola mafia da parte del procuratore Stefano Mercadante, che però l’attribuisce a un «fenomeno di psicologia collettiva, ad una mentalità retrograda, a tenaci cause etniche». E naturalmente fa riferimento all’omertà dei cittadini. Stessa sottovalutazione negli anni 1961-1962: la Sicilia sembra una regione tranquilla secondo i giudici, proprio all’inizio della prima guerra di mafia che farà centinaia di morti ammazzati. Tito Parlatore, procuratore generale della Cassazione, nel 1965 (due anni dopo la strage di Ciaculli, in cui persero la vita 7 rappresentanti delle forze dell’ordine, e l’avvio della prima commissione d’inchiesta sulla mafia), aveva sentenziato in aula, a proposito dell’omicidio del sindacalista Salvatore Carnevale, che la mafia non era materia da tribunali, ma «materia per conferenze». Nel 1967, sempre nella relazione introduttiva al nuovo anno giudiziario, si afferma che il fenomeno della criminalità mafiosa era entrato in una fase di «lenta ma costante sua eliminazione». Nessun allarme in sostanza nel 1968, 1969, 1970. Anzi, nel 1968 il procuratore con orgoglio parla di «netta flessione dei delitti di mafia», come se questo fosse il segnale della sua decadenza. E questi erano le considerazioni sulla mafia di coloro che dovevano contrastarla nella regione in cui all’epoca era più diffusa. E che dire di ciò che scrisse il magistrato di Catania Luigi Russo in una sentenza del 1991, a proposto del pagamento del pizzo alla mafia: «Si può anche non pagare, ma chi non paga deve sapere bene cosa gli succede prima o poi... se tutti facessero così dalla Sicilia sparirebbero le imprese e migliaia di piccole aziende andrebbero in fiamme». E nel 1968, quando già la mafia siciliana era coinvolta da tempo nel traffico di droga, la Procura di Palermo respinse il rinvio a giudizio del boss Genco Russo con la motivazione che con il suo codice d’onore “Cosa nostra mai si sarebbe sporcata le mani con la dr oga!”. A Napoli, nel 1981, il procuratore generale all’inaugurazione dell’anno giudiziario sosteneva che non si potessero applicare alla camorra le stesse misure della mafia, essendo meno pericolosa. Nel corso di quello stesso 1981 ci saranno ben 235 morti ammazzati in scontri tra clan camorristici contrapposti, e già da tempo vigeva nelle carceri e fuori il dominio di Raffaele Cutolo, inventore e capo della Nuova camorra organizzata (NCO). Significative le dichiarazioni pubbliche del giudice Alemi (colui che aveva indagato sul caso Cirillo e aveva scoperto le connivenze tra Dc, servizi segreti e Cutolo per la sua liberazione) sul fatto che la procura di Napoli proscioglieva facilmente i camorristi. Per questo fu querelato da Armando Cono Lancuba, potentissimo capo dell’ufficio denunce, che poco tempo dopo fu arrestato, assieme ad altri magistrati, con l’accusa di aver favorito il clan Alfieri e Galasso in cambio di soldi. Nel 1991 i membri del clan Nuvoletta, uno dei pochi clan di camorra affiliati alla mafia siciliana, vengono scagionati dal reato di associazione mafiosa. Erano stati i mandanti dell’omicidio del giovane giornalista Giancarlo Siani. Sul tribunale di Catania, per anni, ha pesato come un macigno il sospetto di una protezione dei mafiosi e di una particolare accondiscendenza verso i costruttori edili in contatto con le cosche. Poi, il Consiglio superiore della magistratura, a seguito di un’indagine ministeriale, prese provvedimenti contro il procuratore capo Giulio Cesare Di Natale e un suo sostituto, Aldo Grassi. L’accusa riguardava i ritardi nella trattazione del processo per l’omicidio del procuratore Costa e nell’aver accumulato lentezze intollerabili e, a loro avviso, sospette nei procedimenti a carico dei “Cavalieri del lavoro”, cioè dei principali costruttori edili della città. Al termine del loro rapporto gli ispettori ministeriali avevano scritto: «Non sussistono soltanto comportamenti, riconducibili a magistrati, tali da offuscarne la credibilità, sufficienti ai fini della sussistenza della incompatibilità ambientale, ma sono emerse accuse (collegate a fatti in parte fondati) di collusioni o comunque di rapporti ambigui, di insabbiamenti, di inerzie, di negligenze o di compiacenze nei confronti di quel nuovo, e non meno pericoloso, tipo di delinquenza che è la criminalità economica». Un caso a parte è quello del giudice di Cassazione Corrado Carnevale, soprannominato “l’ammazzasentenze” per i numerosi annullamenti di processi per motivi formali grazie ai quali il gotha della mafia usciva sempre impunito. Il formalismo giuridico è stato nel tempo uno degli strumenti più utilizzati dalla magistratura per smontare i processi i mafiosi. Il giudizio di Giovanni Falcone su Carnevale era spietato. Perciò si adoperò affinché non fosse sempre lui a giudicare le sentenze che riguardavano mafiosi. E fu necessario un provvedimento legislativo ad hoc per ottenere la rotazione delle attribuzioni in Cassazione nei processi di mafia. Nel 2002 Carnevale fu prosciolto dall’accusa di associazione esterna con la mafia, ma nel 2012 è stato di nuovo chiamato in causa da Giuseppina Pesce, la rampolla pentita dell’importante famiglia di ?dranghetisti, la quale ha affermato che il suocero, Gaetano Palaia, aveva mantenuto rapporti con il Carnevale fino al 2005 per ottenere “aggiustamenti” nei processi sul clan Pesce. Insomma, è indubbio che il successo della mafia nella storia italiana è stato anche un problema dei giudici. Ma non si trattava solo dell’atteggiamento “benevolo” dei magistrati siciliani verso i mafiosi. Quando furono spostati alcuni importanti processi fuori dall’isola si ottennero gli stessi risultati: nel 1968 la corte d’assise di Catanzaro, dove era stato spostato il procedimento, mandò assolti i mafiosi processati dopo la strage di Ciaculli. Stessa cosa avvenne l’anno dopo a Bari nel processo contro i “corleonesi”. Sta di fatto che Liggio, Riina e Provenzano, coloro che hanno segnato profondamente l’evoluzione della mafia siciliana, furono considerati da un tribunale della Repubblica italiana né assassini né mafiosi, «al di là di ogni ragionevole dubbio». Il campo dell’antimafia oggi è monopolizzato dai magistrati. E a molti dà fastidio questo iper-protagonismo dei giudici. Non era affatto così fino alla fine degli anni ‘70 del Novecento, quando i magistrati e la magistratura in larga parte erano funzionali allo strapotere della mafia, con qualche notevole eccezione. Rocco Chinnici e Vincenzo Pajno, rispettivamente capo dell’ufficio istruzioni e procuratore capo di Palermo, quando avevano cose delicate da comunicarsi, parlavano nell’ascensore riservato che collegava i loro due uffici nel tribunale di Palermo per evitare che i mafiosi venissero a sapere immediatamente quanto la procura stava escogitando contro di essi. E quando Chinnici cominciò a indagare sui banchieri Salvo, il procuratore capo di allora, Giovanni Pizzillo gli disse: «Ma cosa credete di fare all’Ufficio istruzione? La devi smettere Chinnici di fare indagini nelle banche, perché così state rovinando l’economia palermitana». E gli propose di togliere Giovanni Falcone dai processi ai mafiosi e di caricarlo di incartamenti semplici perché «i giudici istruttori non hanno mai scoperto niente». Chinnici così descrive Pizzillo: «L’uomo che a Palermo non ha mai fatto nulla per colpire la mafia e che anzi con i suoi rapporti con i grandi mafiosi l’ha incrementata. Con il suo complice Scozzari (altro magistrato, nemico di Falcone) ha insabbiato tutti i processi nei quali è implicata la mafia». Anche la vicenda che coinvolse direttamente Falcone, a cui dopo il successo nel primo maxi processo di Palermo fu negata la possibilità di sostituire Caponnetto, si inquadrava nel campo della non belligeranza con la mafia. Fu prescelto Antonino Meli perché si inseriva perfettamente lungo una continuità storica che Falcone aveva interrotto. L’inversione di tendenza della magistratura nel campo della lotta alle mafie è un fatto recente, e non sempre acquisito una volta per tutte. Non dimentichiamo che quando Buscetta decise di collaborare disse a Falcone: «Io parlo perché c’è lei; con altri giudici non avrei parlato». Il tribunale di Palermo è stato a lungo luogo di rispetto e di riverenza per i mafiosi. Secondo i dati forniti dal magistrato Gioacchino Natoli, dall’Unità d’Italia fino al 1992 a fronte di almeno 10.000 omicidi ci furono solo 10 ergastoli di mafiosi in Sicilia, mentre ce ne saranno ben 450 solo tra il 1993 e il 2006 nel solo distretto di Palermo. A cosa è stata dovuta questa radicale inversione di tendenza che ha scompaginato gli equilibri precedenti? Condivido, a tal proposito, il parere di Salvatore Lupo: «Si sviluppa un processo di distacco della giovane magistratura dal potere; grazie alla scolarizzazione di massa che sottrae il reclutamento ai tradizionali canali riservati alla possidenza fondiaria e alla classe dei grandi professionisti; grazie all’applicazione seppur tardiva del dettato costituzionale, che dà alla magistratura prima, al singolo magistrato dopo, un’autonomia della quale mai l’una e l’altro avevano goduto nel passato». E fu grazie alle novità intervenute nella magistratura che si produssero analoghe novità anche nella polizia e nei carabinieri. E perciò la mafia colpì assieme ai magistrati anche le forze dell’ordine più attive conto di essa. Mai nella toria precedente uomini degli apparati della sicurezza pubblica avevano osato sfidare la mafia, se non al tempo del prefetto Cesare Mori. E che dire poi dei comportamenti di alcuni prefetti e questori nel corso di questa lunga storia delle “amorevoli relazioni” con i mafiosi? Solo alcuni esempi vorrei ricordare. Il caso che suscitò maggiore scalpore ed ebbe una risonanza nazionale vide coinvolti a Palermo il questore Albanese, il prefetto Giacomo Mancini e il procuratore capo Diego Tajani. Il procuratore Tajani nel 1871 aveva spiccato un mandato di arresto contro il questore Albanese, accusandolo di essere il mandante di tre omicidi operati da membri della Guardia nazionale di Monreale guidata da un noto mafioso. Il questore si rese latitante e da latitante venne ricevuto dall’allora capo del Governo e ministro degli Interni, Lanza. Quando il questore fu poi assolto nel procedimento giudiziario, sostenuto in maniera aperta dal capo del governo, Tajani si dimise dalla magistratura per poi essere eletto deputato nel collegio di Amalfi per la sinistra storica. E in questa veste che il Tajani nel 1875 pronunciò uno dei discorsi più memorabili sulla mafia nella storia del parlamento italiano, ritornando sui fatti che avevano visto il suo scontro con il questore, con il prefetto e con il capo del governo. Qual era l’accusa del Tajani ad Albanese? Al di là dei singoli casi di omicidio, il procuratore indicava nel questore il propugnatore di un’idea di ordine pubblico cogestito con rappresentanti della mafia. Egli applicava alla lettera le indicazioni del prefetto Mancini, il quale per garantirsi il pieno controllo della regione aveva autorizzato i questori a prendere accordi con la mafia e a coinvolgerla nella tenuta della sicurezza dei luoghi da essa dominati. Per di più ai proprietari che gli chiedevano consigli su come comportarsi contro coloro che attentavano ai lori beni, Albanese suggeriva di ucciderli immediatamente sul posto, o di farsi aiutare in questa opera da persone esperte (cioè i mafiosi). Un questore di Palermo nel 1924 (come ricorda Arrigo Petacco) scrisse parole di grande ammirazione per Vito Cascio Ferro, allora capo della mafia, come se fosse un eroe civile e non il capo di un’associazione di assassini. Un prefetto di Caserta, Goffredo Sottile, ebbe a dichiarare il 30 luglio 1997 (quando già la camorra casalese controllava ampiamente il settore dei rifiuti) che «per quanto riguarda le presenze malavitose nel settore siamo ancora ai ‘si dice’. Riscontri obiettivi sulla presenza della criminalità organizzata non ne abbiamo». Un suo predecessore, Luigi Damiano, nel 1995 aveva affermato: «Da quando sono qui, da due anni e mezzo, non ricordo qualche connessione tra cave e camorra o malavita in genere». Eppure il clan dei Casalesi per anni aveva dominato nel campo degli inerti e da diversi anni seminava di rifiuti le campagne casertane e di morti le strade. E quando si è trattato di anticipare l’evoluzione delle mafie, in particolare quello che si stava prefigurando come un radicamento mafioso in alcune regioni del Nord, il ruolo di alcuni prefetti è stato di negazione dell’evidenza. In particolare va ricordato il ruolo svolto nel 2010 dall’allora Prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, che di fronte alla Commissione Parlamentare Antimafia in visita nel capoluogo lombardo, riuscì a dichiarare che «anche se sono presenti singole famiglie, ciò non vuol dire che a Milano e in Lombardia esista la mafia» come se non fossero mai esistiti decenni di rapporti di polizia, inchieste giudiziarie e giornalistiche, nonché manifestazioni antimafia. Ad analizzare poi il numero di latitanti che per anni e anni hanno potuto vivere tranquilli, fare figli, vedersi con i familiari sicuri della tolleranza anche delle forze dell’ordine, si resta allibiti. Bernardo Provenzano è stato latitante per ben 43 anni, 26 anni Vito Roberto Palazzolo, 24 Totò Riina, così per 24 anni si è nascosto Salvatore Lo Piccolo, per 18 anni Giovanni Arena, per 17 Vito Badalamenti, per 11 anni Nitto Santapaola e per 10 i fratelli Graviano. Sono tutti boss di Cosa nostra. Stessa cosa è avvenuto con i boss della ndrangheta: 24 anni Giuseppe Giorgi, 20 anni Domenico Condello,19 anni Giovanni Fazzolari, 18 anni è rimasto latitante Pasquale Condello, 17 anni Giovanni Tegano, 16 anni Sebastiano Pelle, 16 Salvatore Pelle e 15 Luigi Facchineri. Per la camorra si va dai 31 anni di Pasquale Scotti ai 16 anni di Michele Zagaria, dai 16 anni di Pasquale Russo ai15 anni di Marco Di Lauro e ai 14 di Antonio Iovine. In quale parte dell’Occidente sviluppato è avvenuto qualcosa del genere? L’Italia è anche la nazione in cui per anni alcune carceri sono state controllate interamente da mafiosi, ‘ndranghetisti e camorristi, come testimonia bene la storia criminale di Raffaele Cutolo che stando quasi sempre in carcere nella sua vita da adulto ha dato vita a una associazione criminale di più di 5000 aderenti, e come dimostra il fatto che alcuni mafiosi hanno procreato figli stando in carcere, come racconta nel suo documentato libro “Sapevamo già tutto” il generale dei carabinieri Giuseppe Governale. Oltre ai magistrati, ai prefetti e ai questori, bisogna sempre ricordare che ben 5 presidenti del Consiglio hanno avuto rapporti accertati con mafiosi, e almeno tre ministri degli interni e un vasto numero di ministri e parlamentari. Il marchese Starabba di Rudinì, che sarà poi capo del governo italiano tra il 1891e il 1892, aveva dichiarato nel 1876 davanti a una commissione parlamentare che esisteva una mafia benigna: «Ma che cosa è questa mafia? Io dico che è anzitutto una mafia benigna. La mafia benigna è quella specie di spirito di braveria, quel non so che di disposizione a non lasciarsi soverchiare, ma piuttosto soverchiare. Dunque mafioso benigno per così dire potrei esserlo anche io». E al figlio di Emanuele Notabartolo, ex sindaco di Palermo ammazzato dalla mafia, che era andato da lui per un sostegno contro un deputato siciliano accusato di esserne il mandante (Raffaele Palizzolo) diede questo consiglio, nelle vesti di capo del governo dell’Italia: «Se è convinto dei mandanti dell’assassinio di suo padre perché non li fa uccidere?», invitandolo nei fatti a servirsi di killer di mafia. Un altro siciliano a capo del governo tra il 1917 e il 1919, Vittorio Emanuele Orlando, aveva esclamato in un comizio a Palermo nel 1925: «Se per mafia, infatti, si intende il senso dell’onore portato fino all’esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte; se per mafia s’intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell’anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo». E che dire di Giulio Andreotti, il politico italiano più potente del dopoguerra, capo del governo per ben 7 volte capo del governo e 34 volte ministro, nominato poi senatore a vita “per meriti”? Malgrado le notizie ad arte diffuse su un suo totale proscioglimento dalle accuse di mafia nei processi che lo avevano riguardato, fu invece pienamente consapevole dei rapporti dei suoi uomini con la mafia in Sicilia e lui stesso in prima persona li aveva coltivati. Ecco cosa scrivono realmente i giudici: «L’imputato con la sua condotta ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale e arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi». E aggiungono: «L’imputato anche nei periodi in cui rivestiva le cariche di ministro e di presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana, si adoperò in favore di Sindona, nei cui confronti l’autorità giudiziaria italiana aveva emesso sin dal 24 ottobre 1974 un ordine di cattura per il reato di bancarotta fraudolenta. Se gli interessi di Sindona non prevalsero, ciò dipese in larga misura dall’onestà e dal coraggio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, il quale fu ucciso su mandato di Sindona». Sindona era stato uno dei principali riciclatori dei soldi della mafia americana e siciliana, in particolare di quelli di Inzerillo, Bontate e Gambino. E Andreotti non venne condannato per associazione di stampo mafioso solo perché all’epoca dei fatti (prima del 1982, periodo in cui nella sentenza si forniscono le prove di accordi tra lui e i mafiosi) tale reato non era ancora previsto dal codice penale. I rapporti tra Berlusconi, il suo principale collaboratore (Marcello dell’Utri) e i mafiosi siciliani sono ancora più impressionanti e documentati. Rapporti che iniziano nel 1974 e si protraggono per un ventennio. Berlusconi tramite Dell’Utri chiede direttamente aiuto ad alcuni capi-mafia dell’epoca per proteggere i suoi familiari dal pericolo di sequestri, che in quel periodo erano molto diffusi in Lombardia; i mafiosi gli consigliano di assoldare il loro collega Vittorio Mangano formalmente come stalliere ma nei fatti come sovrintendente alla sicurezza dei suoi cari e dei suoi beni immobili. Sta di fatto che l’imprenditore più in carriera dell’epoca, e che poi diventerà presidente del Consiglio, si rivolge a mafiosi e non alle forze di polizia. Ma non si tratterà solo di protezione chiesta a criminali in cambio di soldi ma anche di molto altro. Nella sentenza del 2004 in cui il senatore Dell’Utri viene condannato a nove anni di reclusione, i giudici scrivono: «La pluralità dell’attività posta in essere da Dell’Utri, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di Cosa nostra, alla quale è stata, tra l’altro, offerta l’opportunità, sempre con la mediazione di Dell’Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell’economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che politici». E ancora: «Anziché astenersi dal trattare con la mafia, ha scelto di mediare tra gli interessi di Cosa nostra e gli interessi imprenditoriali di Berlusconi». Nel 2010 nella sentenza di secondo grado, anche se si riduce la pena da nove a sette anni per il collaboratore di Berlusconi, i giudici così scrivono: «Vi è una indiretta conferma del fatto che anche Silvio Berlusconi in quegli anni lontani, pur di risolvere dei problemi, non esitava a ricorrere alle amicizie particolari del suo amico siciliano che gli garantiva la possibilità di fronteggiare le ricorrenti richieste criminali riacquistando la serenità perduta a un costo per lui tollerabili in termini economici». La condanna di Dell’Utri diventa definitiva nel 2014 con una sentenza della Cassazione. Insomma, la domanda semplice da porsi è questa: può un imprenditore servirsi di mafiosi per farsi proteggere? Può avere come principale collaboratore un amico di mafiosi? E, infine, può diventare presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia un imprenditore-politico che aveva relazioni con dei rappresentanti di un’organizzazione criminale ritenuta dalle leggi della nostra repubblica tra le più pericolose al punto da punirla con una legislazione speciale? È singolare poi il modo in cui sia Dell’Utri sia Berlusconi abbiano onorato il mafioso Mangano per il fatto di non aver parlato dei loro “strani” rapporti con i magistrati, definendolo un “eroe”. In quale altra nazione può succedere che un assassino, un membro di un’organizzazione criminale venga definito un eroe dal capo del governo italiano e da un senatore della Repubblica? Dunque, è assolutamente provato che almeno 5 presidenti del Consiglio dei ministri, meridionali, settentrionali e dell’Italia centrale hanno avuto rapporti con le mafie o ne hanno colpevolmente sminuito il carattere criminale. Per troppo tempo i rapporti con le mafie sono stati considerati da una parte della politica italiana dei comportamenti usuali e normali al punto che un ministro della Repubblica, il settentrionale Pietro Lunardi, ha potuto tranquillamente affermare, senza coglierne minimamente la gravità, che «con mafia e camorra bisogna convivere e i problemi della criminalità ognuno li risolva come vuole». E diversi ministri degli Interni (cioè coloro che dovevano garantire la collettività dal condizionamento delle mafie) sono stati accusati, alcuni processati, per rapporti con le mafie (Giovanni Nicotera con la camorra secondo le accuse che gli mosse nel 1874 il prefetto di Napoli Mordini; Mario Scelba con la mafia negli anni ‘50 del Novecento e Antonio Gava negli anni Ottanta). Così come sono diventati capi della polizia personaggi come Vicari e Parisi, al centro di discusse trattative con camorristi e mafiosi (nel caso dell’uccisione del bandito Giuliano il primo, e nel caso della liberazione dell’assessore regionale della Campania Ciro Cirillo il secondo). L’Italia è l’unico paese nell’occidente in cui la sfera politica e quella criminale si sono così fortemente intrecciate con l’avallo dei diversi esponenti della magistratura e delle forze di sicurezza. Come si è potuto affermare in Italia un potere privato violento per così tanti anni senza determinare una emarginazione per coloro che la esercitavano ma addirittura una legittimazione diretta o indiretta da parte di diversi rappresentanti delle istituzioni che rappresentavano lo Stato? Consiste in ciò l’originalità della questione mafiosa in Italia: essa non è parte della storia del crimine, ma è dentro fino in fondo alla storia delle classi dirigenti italiane e della loro concezione dello Stato. Che c’entra l’antimafia sociale con questa lunga e pesante responsabilità politica e istituzionale?