Tuttolibri, 26 marzo 2022
Intervista a Margaret Atwood
Questioni scottanti è la terza raccolta di saggi (che vanno dal 2004 al 2021) di Margaret Atwood. Si va da pezzi di critica letteraria (sui grandi classici e sui contemporanei), a riflessioni sul ruolo stesso della letteratura in un’epoca di fragilità sistemica, a interventi politici su questioni legate all’ambiente, alla tecnologia o alle derive iper-ideologiche del femminismo, al ripensamento della speculative fiction in rapporto alle nuove forme di oscurantismo, ad appassionate dichiarazioni di amore verso la figura di Rachel Carson. Sono «scritti d’occasione» come li definisce Atwood, «strettamente legati al momento e al luogo a cui appartengono (…) Inoltre sono legati all’età che avevo quando li ho scritti; e alle circostanze della mia vita (lavoravo? Studiavo? Mi occorrevano quei soldi?». È una dichiarazione di intenti e di poetica piuttosto chiara: si scrive dentro la realtà, e la realtà – anche per chi è diventata celebre come scrittrice di fantascienza – è fatta di dati materiali. Mi sembra questo il punto da cui partire nella mia chiacchierata con lei.
Oggi che sei una scrittrice famosissima, e anche – presumo – piuttosto ricca, pensi ancora che la base materiale condizioni la tua scrittura?
«Sì, è fondamentale per chiunque scriva, come è rilevante la tua età, il tuo corpo, quello che accade nel mondo, la tua vita personale e la tua vita sociale. Gli scrittori e le scrittrici cambiano negli anni, e cambiano la visione di ciò che scrivono, così come la cambia chi legge. E poi c’è un fattore temporale ancora più stringente, e cioè: a meno che non scrivi un blog, esisterà sempre un lasso di tempo prima della pubblicazione, un "ritardo" che potrà rivelarsi cruciale. Ma i soldi non sono l’unico condizionamento, anche i meccanismi editoriali giocano il loro ruolo. Ad esempio, sei un giornalista: quanto sei libero? Hai un capo sopra di te? Puoi permetterti di decidere quando consegnare un pezzo? ».
Questo approccio diciamo quasi "marxista" al lavoro di scrittura c’entra con la tua origine canadese? Penso alla creazione del sindacato degli scrittori…
«Al tempo, erano gli anni ’70, abbiamo deciso di fondare un sindacato perché non esistevano gli agenti letterari, non avevamo modo di confrontarci sui contratti, di capire quale fosse uno standard equo. I poeti erano meno interessati alla questione rispetto a noi scrittori di prosa… ma si sa, i poeti sono poeti! Il governo canadese faceva accordi con i rivenditori americani stampando più copie del dovuto e ricomprando quelle copie come remainder: così non ci guadagnavano né gli autori, né gli editori. Abbiamo cominciato a fare picchetti contro il governo, ma ci serviva un’organizzazione unitaria per difendere i nostri diritti. Nessuno ci dava credito perché pensavano che gli scrittori non si sarebbero mai messi d’accordo. Ma non si trattava di avere un’unica idea politica, o un’unica ideologia, a meno che per ideologia si intenda che la gente deve essere pagata per il proprio lavoro».
Insomma un po’ il rovesciamento della famosa "torre d’avorio"…
«Chi ha un’idea del genere non ha nessuna cognizione della storia dell’editoria. È una cosa che fa parte della tradizione stessa del romanzo. Se parli delle persone, parli per forza anche del loro contesto, della loro posizione sociale, del modo in cui vivono. Dove abitano? Hanno una casa? Una tenda? Un castello? Che fanno per vivere? Sono industriali? Contadini? Aristocratici? Puoi anche ambientare un romanzo su una navicella persa nello spazio, ma comunque là dentro la gente avrà dei vestiti, dovrà mangiare… E da dove vengono quei vestiti? Chi ha prodotto il cibo? Essere una persona significa esistere in uno stato di imperfezione, e chi scrive lo sa. Poi vorrei tanto incontrarle queste anime pure…».
Leggendo i tuoi saggi ho ritrovato moltissimi temi e preoccupazioni di un’altra teorica e scrittrice di fantascienza, Ursula Le Guin, morta da poco: ambientalismo, amore per gli animali, un pensiero sul mondo lontano dall’antropocentrismo. Penso anche a Donna Haraway. Sono tutte questioni molto care alle nuove generazioni e all’eco-femminismo, eppure per loro appartenete alla generazione delle nonne, anzi quasi bisnonne, senza offesa… Che spiegazione ti sei data?
«Di solito i giovani pensano che i genitori siano imbarazzanti, mentre i nonni sono interessanti. Le persone per differenziarsi come individui devono separarsi dai genitori e quindi può capitare che vadano a riscoprire modelli e riferimenti lontani. Poi certo, il femminismo della seconda generazione aveva questioni più impellenti di cui occuparsi e che oggi diamo completamente per scontate, tipo: una donna può possedere una carta di credito personale? Si può laureare in ingegneria? Eppure il Club di Roma aveva già avvertito nel 1972 che la crescita economica basata sul petrolio non sarebbe stata sostenibile, ma nessuno gli ha dato ascolto. Oggi che vediamo gli effetti del disastro ambientale ci rendiamo conto che non si può separare l’agency del femminismo da quella ambientalista, perché non potremo più parlare di femminismo se finisce il mondo».
Pensi che la vostra preoccupazione verso l’ambiente e la coesistenza tra specie diverse derivasse anche dal fatto di scrivere fantascienza? Insomma, vedevate le conseguenze del presente riversarsi sul futuro?
«Non si può predire il futuro, perché il futuro non esiste. Esistono tanti futuri possibili. Se prendi la situazione in Ucraina, ci sono almeno cinque esiti possibili, ma non sappiamo quale sarà quello effettivo. Allargando la prospettiva a tutta la Terra, le cose potranno andare peggio, oppure andare meglio, ma non potranno mai essere uguali a ora. Sto organizzando un progetto per l’autunno di quest’anno che si chiama "Practical Utopia" in cui un gruppo di persone è invitato a discutere e progettare una possibile utopia. Lo scopo è diminuire il consumo di carbon fossile, ma prendendo in esame tutti gli aspetti: in che mondo vogliamo vivere? Come vogliamo vestirci? Che governo desideriamo? Una democrazia? Un consiglio di saggi? Un governo degli esperti alla Platone? E nel caso che ruolo avranno le donne? Platone non è che le prendesse proprio in considerazione… ».
Pensi sia ancora utile la parola utopia?
«Mettiamola così: il paradosso è che se non provi a migliorare le cose, le cose peggioreranno; se però provi a migliorarle in un colpo solo avrai una distopia. Se hai un piano e lo imponi su tutti, finisci in dittatura. Nel nostro progetto avremo dei facilitatori per impedire alla gente di urlarsi addosso e per far capire che bisogna accettare il fatto che non tutti siano d’accordo. Marge Piercy nel suo romanzo Woman on the Edge of Time ha sintetizzato benissimo la questione. Fa chiedere a un personaggio: "Che facciamo con le persone che non sono d’accordo?", "Le rieduchiamo", "E se continuano a non essere d’accordo?", "Be’, le ammazziamo, perché siamo contro le prigioni". Ecco il punto: come fare a evitare di uccidere chi non è d’accordo con noi?».
Già, come si fa?
«Ho organizzato questo progetto apposta! Intanto contemplare le donne in un’idea di utopia pratica è già un passo avanti, perché se le donne sono incazzate tutto il tempo non gioverà a nessuno. Pensa alla Rivoluzione Francese e ai suoi ideali: libertà, uguaglianza e fratellanza. Cosa manca?».
Non lo so, cosa?
«La sorellanza! Quando Olympe de Gouges scrisse per provocazione La dichiarazione dei diritti della donna è stata ghigliottinata».
E come vedi la questione della lingua in questa "utopia pratica"? Se vengono rimosse determinate parole dal linguaggio, pensi possano riaffiorare in forme diverse?
«La lingua si è sempre modificata di per sé. Sono i giovani a cambiarla, sono loro a dire cosa è fico e cosa no. Poi c’è un’altra questione, e cioè della separazione tra il linguaggio "di strada" e quello pubblico o scritto. Nel ventesimo secolo si potevano utilizzare termini razzisti, ma erano vietate le parolacce. Oggi si possono usare le parolacce in un libro, ma non termini razzisti. Se la sinistra metterà a punto una strategia sofisticata di bonificazione della lingua, la conseguenza è che se ne potrà appropriare la destra. Le tecniche che funzionano vengono rubate. È una questione dialettica, e comunque esisteranno sempre dei periodi di puritanesimo alternati a periodi di permissivismo, e sia gli uni che gli altri possono essere appannaggio della destra come della sinistra. Però la criticità reale di una lingua non si misura all’interno di un dibattito accademico. Tu lavori all’università?».
No.
«Però sai di cosa parlo, no?
Be’, sì, anche perché il dibattito accademico di stampo anglosassone finisce per condizionare tutta la cultura occidentale…
«Ecco la cultura occidentale. Che cos’è? E cosa sono questi valori che stiamo difendendo? Ce ne rendiamo conto quando sono sotto attacco, come ora con la questione Ucraina. Si fa sempre riferimento alla «Dichiarazione dei diritti universali», ma nessuno si prende nemmeno la briga di rileggersela. Quali sono questi diritti? C’è molta confusione a riguardo, anche sul termine stesso di libertà. Io direi di andarci a riguardare i limiti, le possibilità e le strutture sociali che sono sotto questi valori. Che ad esempio comprendono la separazione dell’apparato giuridico dal governo. O il fatto che non esistano persone subalterne. Le persone sono persone, e tutte le persone sono persone. Ti lascio con questa tautologia, la trovo estremamente utile».