ItaliaOggi, 26 marzo 2022
Orsi & tori
Bello tosto, anzi tostissimo il discorso del presidente Mario Draghi, dopo il monologo del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky al parlamento italiano. Molto più tosto e più netto di qualsiasi discorso sull’Ucraina e la Russia del presidente americano Joe Biden. Come italiani c’è da esserne contenti o scontenti? C’è da esserne preoccupati o sereni?
Non è sconosciuto che ho sempre avuto e continuo ad avere grande stima e ammirazione verso il presidente Draghi, grazie anche alla confidenza e stima che mi ha ricambiato in più occasioni. Ma quel recente discorso non mi ha convinto, anche se era forse inevitabile nel contesto delle relazioni atlantiche di grande solidità del capo del governo italiano e della necessità di conservare all’Italia un ruolo pari almeno a quello della Francia se non della Germania, che di per sé ha un peso nella Ue, e conseguentemente nelle alleanze atlantiche, pari alla somma di quello italiano e francese.
Non mi ha convinto per una semplice ragione: sul piano economico conseguente alle sanzioni, l’Italia è il paese che ha più da perdere e, pur senza tradire alcun ideale e alcuna alleanza, parole meno crude avrebbero posizionato il paese in un ruolo un po’ più defilato, visto che non saranno certo quelle parole dure a cambiare il destino della guerra in essere e di quella, fredda, freddissima, che potrebbe seguire. In fin dei conti nessuno aveva obbligato l’Italia a dipendere per l’energia al 40% dalla Russia. Evidentemente, dietro le forniture di gas e di petrolio c’era anche un certo feeling politico, visto che Vladimir Putin si era addirittura spinto a mandare il suo inarrivabile yacht a fare revisione in un cantiere italiano. Non dico assolutamente che per convenienza si debbano rinnegare gli ideali, assolutamente no, ma neppure essere più realisti del re.
Anche perché sicuramente Draghi legge The Economist, che come riportato su queste pagine la scorsa settimana ha dato ampio spazio alle tesi, documentate, del professore americano dell’Università di Chicago, John Mearsheimer, secondo cui la guerra in atto nasce da molto lontano, almeno dal vertice Nato di Bucarest dell’aprile 2008, quando l’allora presidente George W. Bush voleva impegnare l’Alleanza atlantica a fare entrare la Georgia e l’Ucraina. Solo il no deciso di Angela Merkel e del presidente francese Nicolas Sarkozy impedirono che avvenisse l’ingresso nella Nato dei due stati confinanti con la Russia ed ex-parte dell’Urss.
Con l’equilibrio che lo contraddistingue, il settimanale inglese questa settimana ha dato spazio a chi non la pensa proprio come il professor Mearsheimer. Si tratta di Sir Adam Roberts, professore emerito in relazioni internazionali all’Università di Oxford. Non che il prof. Roberts consideri infondata la tesi del collega americano, anche perché Mearsheimer ha riportato tutti documenti ufficiali, incluso l’accordo di cooperazione fra Usa e Ucraina firmato nel dicembre scorso dal presidente americano Biden e dal presidente ucraino. No: la tesi, molto interessante, di Roberts è che l’espansione della Nato sia stata sì una componente di rilievo della reazione di Putin, ma non la sola. Anzi, è solo uno di vari fattori. Condivide comunque il professore di Oxford che tutta la vicenda, come ha scritto il professore di Chicago, iniziò proprio dal vertice Nato del 2008 a Bucarest. Rifacendosi alla teoria delle «Sfere di influenza» che è antica ma sempre viva, Roberts afferma che dette sfere possono sfidare l’idea dell’ eguaglianza sovrana degli stati. Era successo con i missili di Cuba nel 1962, quando il presidente John Kennedy recuperò addirittura la Dottrina Monroe del 1823 che cercava di escludere il dominio coloniale europeo in America Latina. «Dall’altra parte», spiega Roberts, «l’Unione sovietica, durante tutta la guerra fredda ha considerato tutta l’Europa orientale, dove riuscì a imporre regimi clientelari, come la sua sfera di influenza sotto l’etichetta eufemistica di Commonwealth delle nazioni socialiste. Non vi è dubbio che Putin voglia difendere quella sfera di influenza della Russia».
Ma secondo Roberts c’è molto di più: la sfida ucraina in risposta alla grande esercitazione militare russa al suo confine l’anno scorso è stata difficile da tollerare per Putin. Le casistiche assunte dall’Ucraina (successo della democrazia) sono diventati una mina per l’autoritarismo del leader russo. Ma soprattutto, è la teoria di Sir Roberts, così come è avvenuto per gli Usa in Iraq, anche la Russia ha lanciato la guerra sulla base delle informazioni gravemente errate dell’intelligence.
Le ragioni più profonde e meno prossime vanno ricercate nella rottura degli imperi, che crea disordine e traumi. La cittadinanza basata sull’etnia può essere conservata? I parenti che vivono in un altro stato possono avere diritto alla cittadinanza? Quale costituzione? Quale lingua? Queste precarietà sono alla base di moltissime delle crisi politiche e dei conflitti armati negli ultimi 100 anni.
È la realtà vissuta dalla Georgia e della Ucraina negli anni ’90 dopo il disfacimento dell’Unione sovietica e prima del caso del loro ricercato ingresso nella Nato: crisi post-coloniali e post imperiali. «In Georgia due aree scissioniste hanno fornito la base o un pretesto per l’intervento russo. Allo stesso modo, le due repubbliche scissionistiche sostenute dalla Russia hanno offerto l’opportunità di intervento della Russia».
Ancora più importante, secondo Roberts ma anche oggettivamente, è la questione delle armi nucleari che sono rimaste in Ucraina, in Bielorussia e in Kazakistan. I tre paesi post-sovietici hanno accettato all’epoca di restituire quelle armi alla Russia in cambio di garanzie di sicurezza dalla Russia stessa, dalla Gran Bretagna e degli Usa, che si impegnarono a rispettare la sovranità, l’indipendenza e i confini esistenti dell’Ucraina e degli altri stati. In contrato con il professor Mearsheimer, Sir Roberts sostiene che questo accordo è stato violato con la presa della Crimea da parte della Russia nel marzo del 2014. Di fronte a questa violazione, la posizione dell’Ucraina è diventata ostile e preoccupata, visto che non solo c’era stata la violazione della Russia ma anche la constatazione della mancata garanzia di sicurezza di due paesi leader del mondo occidentale.
Da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna è stata una strategia per spingere l’Ucraina sempre più verso la Nato? Meta peraltro difficilmente raggiungibile.
Altro elemento che probabilmente ha spinto Putin a passare all’attacco sono state le rivoluzioni politiche esplose in vari paesi dell’ex-Urss negli ultimi decenni. E Roberts aggiunge: «a Putin questi movimenti devono aver ricordato i movimenti nell’Europa dell’est nel 1989». Il comunismo in questi paesi è caduto come un birillo, uno dietro l’altro. Rivoluzione delle rose in Georgia nel 2003 contro gli uomini forti e corrotti che Putin aveva messo al potere. Un anno dopo, la rivoluzione Arancione in Ucraina che aveva defenestrato il presidente filorusso Victor Yanukovych. In verità in questo caso, con il dettaglio documentato dal professor Mearsheimer, la ribellione è stata fomentata e sostenuta dagli americani. Aggiungendo lo stesso professore che «la nostra strategia americana di base è quella di rovesciare i regimi di tutto il mondo». Al punto che il professor Roberts conclude con parole dure verso il collega: «In tutta la sua analisi, il professor Mearsheimer presta poca attenzione agli ideali e ai desideri politici delle persone nei paesi che hanno sperimentato rivoluzioni di potere popolare». Pur riconoscendo che probabilmente la proposta di espansione della Nato del 2008 abbia peggiorato le cose, così come altre azioni occidentali, Sir Roberts sostiene: «nonostante ciò, non condivido che l’Occidente sia il responsabile pieno della crisi ucraina».
Come diceva Alessandro Manzoni, il torto e la ragione, l’ho già scritto, non si tagliano mai in maniera così netta tale che una parte abbia solo l’uno o l’altra. Ma il problema resta: come se ne esce? Come si possono salvare vite umane e come si possano arrestare le gravi conseguenze economiche che la guerra e le sanzioni stanno imponendo a tutti i cittadini dell’Europa e assai meno o per niente di quelli degli Usa?
C’è una teoria molto interessante che circola anche negli Stati Uniti. Il capo del mondo occidentale, il presidente Biden dovrebbe rileggere la lezione del suo predecessore Harry Truman invece, come ha fatto evocandolo dopo la sua nomina, dell’altro presidente Franklin Roosevelt.
Nel 1947 Truman dichiarò al Congresso: «Deve essere la politica americana a sostenere i popoli liberi che resistono alle oppressioni di gruppi armati». La politica, diceva Truman, e le sue parole hanno ispirato la politica americana durante tutti gli anni della guerra fredda.
Si ritorna infatti, sempre che non succeda di peggio, agli anni in cui il mondo era diviso in blocchi e non agli anni della globalizzazione il cui motore è stato quello economico. Chi suggerisce di tornare a Truman cita inevitabilmente il suo acuto segretario di stato, Dean Acheson, secondo il quale il compito che aveva l’America nel 1945 era un po’ meno straordinario di quello descritto nel primo capitolo della Genesi, cioè di creare il mondo dal caos, «il nostro compito è solo di creare mezzo mondo libero, non far saltare in aria tutto il processo».
Si capisce perché, per le persone ragionevoli il compito di Biden sia quello di evitare che il mondo ritorni nel caos e di preservare il più possibile la parte dove la libertà democratica è consolidata. Opinione sostenuta anche dal dipartimento di politica internazionale della Johns Hopkins University, secondo cui la Russia è un nemico assai più insignificante dell’Unione sovietica, un impero ferito piuttosto che una superpotenza con ideologia globale e un’economia sostanzialmente autarchica.
E allora, che suggerimento se ne trae? Che il presidente Biden debba egli stesso abbassare i toni e privilegiare su tutto la trattativa di pace, senza preoccupazione di non sembrare un presidente molle agli occhi dei fieri cittadini americani. Perché in definitiva il vero competitore non è la Russia ma la Cina, la cui flotta navale viene stimata assai più grande di quella americana anche se quest’ultima vanta molte più grandi navi strategiche. In più, non è un mistero divino, la Cina sta accrescendo il suo sistema nucleare oltre ad avere una tecnologia che è già superiore a quella americana se la si guarda dal lato dei big data e dell’AI, anche per il semplice motivo che ha ogni giorno i dati prodotti da 1,4 miliardi di cittadini, contro i 300 milioni degli Usa.
Questo giornale e Class Editori hanno organizzato a partire da lunedì 28 sino a mercoledì 30 i primi Stati generali dell’intelligenza artificiale in Italia e già dai lavori preparatori si evidenzia che l’occidente non è più primo in questo fondamentale settore che cambierà la vita di tutti. È previsto un intervento fondamentale del professor Kai Fu Lee, che ha insegnato negli Usa e ora, tornato in Cina come capo di Google, in realtà guida la maggiore struttura al mondo di investimenti per l’AI.
Se si aggiunge che proprio le sanzioni alla Russia del 2014 sono state la spinta più forte al suo incontro con la Cina, al punto da far passare i due paesi da nemici confinati ad amici che decidano di usare le proprie valute per le transazioni fra i due stati, si capisce perché la Cina faccia il pesce in barile e si astenga dal prendere posizione. In fin dei conti, le rivendicazioni territoriali della Russia trovano analogia nella questione che ha la Cina e cioè la rivendicazione di Taiwan, diventata autonoma nel 1949 durante la guerra civile fra i comunisti del presidente Mao e i nazionalisti di Ciang Kai-shek, che fu decisa dagli Usa appoggiando i nazionalisti nella ritirata nell’isola, oggi primo produttore al mondo di microprocessori.
In questo sesto l’Ucraina è una sorta di prova generale del futuro di Taiwan per la Cina.
Come si vede, il panorama che il mondo ha davanti è assai più complesso di Russia-Ucraina, specialmente se si aggiunge che la terza potenza nucleare mondiale, l’India, segue pedestremente la Cina nell’astensione in sede Onu.
In conclusione, le prove che il presidente Biden e il mondo occidentale hanno davanti sono non solo limitate all’Ucraina, ma inevitabilmente il presidente americano verrà giudicato a medio termine su come affronterà la Cina e su come interpreterà la sua missione seguendo o meno la lezione di Truman. Perché comunque siamo al ritorno della guerra fredda.