il Fatto Quotidiano, 26 marzo 2022
Innamorarsi al corso di Poesia erotica medievale
Che bel film Una storia d’amore e di desiderio, opera seconda della tunisina Leyla Bouzid, classe 1984, figlia d’arte (il regista e intellettuale Nouri), già apprezzata e premiata per l’esordio Appena apro gli occhi – Canto per la libertà del 2015. Anche qui il personaggio femminile si chiama Farah ed è tunisina, ma stavolta il protagonista è maschile, il diciottenne Ahmed, francese di seconda generazione, figlio di algerini immigrati per motivi politici e cresciuto in una banlieue.
Il teatro d’incontro è la Sorbona, dove la nuova arrivata Farah segue un corso di Letteratura araba erotica d’epoca medioevale: è il controcanto – letteralmente – poetico dell’educazione sentimentale, prima che sessuale, a cui il riservato e fragile, involuto ma non tossico Ahmed è chiamato. Già chiusura della 60esima Semaine de la Critique di Cannes, battezzato in Italia dal meritorio MedFilm Fest, Una storia d’amore e di desiderio ribadisce l’universalità del dantesco “Amor, ch’a nullo amato amar perdona” e rivela come l’istanza desiderante possa essere all’unisono corpo, città, cultura.
Bouzid del linguaggio amoroso fa selezione di moti d’animo e combinazione di visioni del mondo, sovvertendo con graziosa fermezza premesse e promesse: la prima volta è dell’uomo, lo struggimento idem, l’arretratezza anche, ma le tribolazioni di Ahmed non sono mai vessate né derise, piuttosto partecipate dallo spettatore debitamente messo in soggettiva. La regista fa professione di empatia, nasconde le ambizioni dietro una forma piana, uno stile semplice, eppure il suo intenzionale minimalismo non è mai rinuncia, al contrario, ha gli echi colti di Rohmer, i viraggi vitalisti, e desideranti, di Abdel Kechiche.
Se appropriazione culturale ed emancipazione individuale sono le convergenze parallele di Ahmed, il codice della Bouzid non è né ideologicamente né cinematograficamente (il sempiterno canovaccio boy-meets-girl) binario, bensì varia sullo spartito, garantendosi prospettiva sociologica e dimensione pubblica. Nonché licenza di fuoristrada: la relazione di Ahmed e Farah ci dice, tra le altre cose, che i magrebini non sono il monolite che pensiamo, che un’immigrata tunisina a Parigi può integrarsi meglio di un francese di seconda generazione e, buonissimo anche da Trieste in giù, che non c’è bisogno di sbatter un mostro in primo piano per dire della crisi del maschio oggi. Non sono questi traguardi di traiettorie a tesi, ma precipitati di una poetica umanissima, di un’esplorazione sensuale e notturna del sé e dell’altro, di una risposta sofferta e sapida a “l’amore puro può essere consumato?”.
Bouzid dimostra con assertività e creatività che la giusta misura non è mezza, che la seduzione più che pericolosa è provvida, e che il cinema, complici due meravigliosi interpreti quali Sami Outbali e Zbeida Belhajmor, può esser la risposta a domande che nemmeno ci facevamo. Da non perdere.